Hammers. [Part 1]

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                                                                6] – Hammers. [Part 1]

Non ero mai stata un tipo che si spaventava facilmente.

Ho sempre avuto un carattere un po' particolare, non avevo paura di dire la mia, in qualche modo sapevo farmi valere, e mi sono sempre ritenuta un tipo orgoglioso, che non si piegava, né permetteva a qualcuno di metterle i piedi in testa.

Mi piaceva ottenere tutto ciò che volevo, per quanto fossero cose così frivole da concedermi appena il brivido della conquista, e nient'altro.

Quando ero solo una bambina, imparai che spesso bastava qualche lacrima per ottenere qualcosa, o un semplice sorriso fatto al momento giusto. Da adulta, non fu poi così diverso: mi bastarono un sorriso e qualche passo fatto nel modo giusto per entrare a far parte della squadra delle cheerleader, e mi bastò altrettanto poco per capire che, se non avessi tirato fuori le zanne da quel sorriso, mi avrebbero massacrata.

In fondo, la squadra delle cheerleader, altri non era che il covo delle vipere più velenose di tutta la scuola; la riunione dell'ipocrisia più pura, fatta di false pacche amichevoli, risate e amicizie che non avevano niente di reale.

Stavano insieme perché erano accomunate dal desiderio di essere la migliore, la più popolare, e per provare a esserlo, innanzitutto, dovevi stare lì.

Io, invece, ero una di loro perché non volevo grane.

Essere una cheerleader garantiva una vita al liceo per lo più sopportabile; dovevi avere le palle per stare tra quelle arpie, certo, ma col tempo non ne ebbi più neanche il timore.

Sculettavo durante i balletti delle partite, frequentavo con rigore quegli stupidi allenamenti, sorridevo affabile per i corridoi, ridendo quando le mie compagne inveivano contro quelli che venivano definiti “sfigati” e cinguettavo con i giocatori di football, perdendoci anche la verginità, con uno di loro. Perché così dovevaessere, e così feci. Recitavo la mia parte alla lettera e fine dei giochi, anche se spesso mi dava il voltastomaco, tanto da esser costretta a fingermi malata per un paio di giorni l’anno, così da potermi disintossicare da quella spazzatura.

Finito il liceo, pensai che il peggio fosse passato; che non avrei avuto più problemi, né motivi per cui aver paura. In fondo, cosa poteva esserci di peggio di un gruppo di streghe pronte a rovinarti la vita?

Era quello che credevo il peggio, e così restò per altri anni... già, finché non arrivai a Londra e non mi trovai davanti a quella scena, al Boleyn.

Non saprei dire quanti fossero quella sera, probabilmente una quindicina, o giù di lì. Camminavano distrattamente, senza neanche far caso alla pioggia che si abbatteva su di loro e, ad ogni passo che compivano, avevo la sensazione di sentire il mio cuore tremare.

Si fermarono davanti a noi, parlottando tra di loro, e Julia, dopo aver farfugliato qualcosa frettolosamente, che comprendeva le parole “avvertire” e “ragazzi”, fece per rientrare nel pub, bloccandosi all'improvviso. «Elle!» mi chiamò poi, riscuotendomi. «Vieni dentro!»

La guardai stranita, mentre spariva oltre la soglia e ritornai con lo sguardo verso i nuovi arrivati. Non avevano un'aria troppo amichevole ma, in quel momento, l’unico ragionamento che fui capace di fare era che non conoscevo direttamente nessuno di loro, né loro conoscevano me, perciò pensai che non potessero infastidirmi e di tornare a casa per conto mio.

Primo, grosso sbaglio.

Avanzai di qualche passo, con lo sguardo basso, e svoltai appena a sinistra, per aggirarli e proseguire per la mia strada. Fui sul punto di superarli, quando uno di loro si rivolse a uno dei presenti, riferendosi a me: «Ehi, non è quella che era con Dunham?»

Blowing BubblesWhere stories live. Discover now