Il primo temporale.

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                                          3rd. “Il primo temporale”

«Perché non prendiamo la metro da Upton Park?» chiesi ad Aaron, quando s’incamminò verso il lato opposto. «Mia sorella mi ha detto che è la più vicina.»

«Fidati, è meglio così» rispose, atono.

Continuai a camminargli accanto, poco convinta dalle sue parole. Aveva liquidato la mia domanda senza darmi una spiegazione, perciò decisi di insistere: «Sì, ma perché?»

«E tu, perché sei così curiosa?»

Sbuffai per la sua indisposizione e per quella sua aria di sufficienza che proprio non riuscivo a tollerare; tanto che per un attimo mi pentii di averlo seguito.

«Sei sempre così indisponente?» domandai allora, con voce inacidita.

«E tu, sei sempre così curiosa?» rise e mi voltai verso di lui per fulminarlo con lo sguardo.

«Se avessi saputo che era impossibile fare conversazione, sarei andata da sola.»

«Questo non è fare conversazione, questo è ficcanasare!»

«Chiederti perché non prendiamo la metro a Upton Park è ficcanasare per te?» replicai, stupita. Non sapevo se prendere sul serio le sue parole o mandarlo al diavolo perché si prendeva gioco di me. «Non credevo tu avessi una questione personale con una stazione della metro!»

«In un certo senso...» soffiò, lasciando cadere la frase nel vuoto.

Mi accigliai, sempre più confusa. «E questo adesso che significa?»

«Che sei troppo curiosa, e che mentre ti lamentavi siamo arrivati» rispose, muovendo le labbra malconce in un ghigno, per poi indicare le scale di un’altra fermata dell’intricata metropolitana londinese.

Comprò i biglietti per entrambi alla piccola edicola posta al lato dell’entrata e mi fece cenno di seguirlo attraverso i pallidi corridoi sotterranei, ornati di vecchi e nuovi manifesti a rivestire le pareti. Pochi minuti di silenzio su quella banchina e due luci, piccole e lontane, comparvero improvvisamente nel tubo scuro ingrandendosi progressivamente, fino a mostrarsi nella galleria e sfrecciare avanti. Le porte metalliche si aprirono ed entrammo nella carrozza, tra il fiume di persone.

«Avvicinati» sentenziò Aaron, guardandomi storto. Gli diedi retta, senza tante proteste, ma mi sentii stranamente punta nell’orgoglio, quasi che lui mi stesse trattando come una bambina che era costretto a trascinarsi dietro; o come se non fossi in grado di cavarmela da sola.

L’avevo già presa la metro, probabilmente anche più di lui, eppure si sentiva in dovere di riprendermi con quella sua espressione saccente e odiosa.

Sbuffai infastidita e mi avvicinai di qualche passo, cercando con lo sguardo un appiglio a cui tenermi, per non avere un incontro ravvicinato con il pavimento. Feci per aggrapparmi al palo, quando la brusca frenata – tipica di ogni arrivo – mi fece perdere l’equilibrio e mi sbilanciò pericolosamente in avanti. Sarei caduta sicuramente a terra, se Aaron non mi avesse trattenuta con il suo avambraccio e stretta.

Sbattei contro il suo torace e, per quanto m’infastidisse essere “salvata” da lui, era pur sempre meglio dell’altra alternativa.

«Grazie» soffiai, con le mani ancora poggiate al suo petto, e fu nell’attimo in cui mi concessi un sospiro per lo scampato pericolo, che il suo odore si insediò nelle mie narici fino a risalire alla testa e confondermi. Senza un motivo ben preciso, arrossii per quel contatto e per il fatto di esser stata inebriata dal suo profumo e aver pensato che fosse dannatamente buono. Chiusa là dentro, nel mio protettivo mondo in cui mi ero sempre rifugiata, era la prima volta che mi trovavo a fronteggiare qualcosa che mi aveva realmente riscossa; inspiegabilmente elettrizzata.

Blowing BubblesWhere stories live. Discover now