La stanza.

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                                                          5] – La stanza.

La voce di Aaron proveniente dal piano di sopra, ancora impegnato nella telefonata, mi diede la forza di spingere su quella vecchia e sporca maniglia fino al suo limite, e aprire uno spiraglio nel buio. Restai immobile per qualche secondo, quando non percepii più il chiacchiericcio – gelata dallo spavento – ma appena riprese, deglutii per farmi coraggio e la aprii ancora un po’.

Cercai d’individuare qualcosa, ma la stanza che si estendeva oltre la soglia doveva essere priva di finestre; qualcosa simile a un ripostiglio, perché non filtrava neanche una fievole traccia di luce. Un’altra spinta e lasciai che fosse la lampadina della cantina in cui mi trovavo ad illuminare un po’ il resto. Stavolta riuscii a scorgere qualcosa di bianco sul fondo. Una specie di grosso lavandino affiancato da un lungo ripiano. Feci per richiudere la porta, immaginando che fosse una semplice vecchia lavanderia o qualcosa del genere, quando lo sguardo passò lungo dei fili sospesi in aria, che passavano da un lato all’altro della stanza; ed altri strani aggeggi.

Aggrottai la fronte sporgendomi in avanti per osservarli così che, su un lato del muro, intravidi l’interruttore ed allungai la mano per premerlo.

«Che diavolo stai facendo?»

La voce grave alle mie spalle mi fece sobbalzare e richiudere la porta con violenza, mentre il cuore iniziò a pulsare all’impazzata, così veloce che credetti di sentirlo sfondare il torace per guizzare fuori. Mi voltai verso di lui, probabilmente bianca come un cencio, convinta che le gambe potessero cedermi da un momento all’altro, soprattutto quando lo vidi a metà delle scale con uno sguardo raggelante.

Provai pura paura quando incrociai quegli occhi chiari, fino a poco prima considerati splendidi, ma che in quel momento parvero in grado di trafiggermi. Trattenni il fiato, mentre iniziò a scendere gli ultimi scalini, avvicinandosi a me con la mascella contratta e la fronte aggrottata. «Che diavolo stai facendo?» ripeté, in un sibilo passato tra i denti stretti.

«Io non…» balbettai, incapace di articolare una risposta plausibile; anche perché non avevo scuse.

«Ti sembra il freezer quello?!» chiese allora, con un tono di voce più alto. Tremava di rabbia, per lo sforzo di non urlare, o peggio.

L’istinto mi suggerì di indietreggiare, finché non sentii la schiena aderire a quella dannata porta che mi aveva cacciata in quel pasticcio; e così afferrai la maniglia, nell’insana idea di riabbassarla e rifugiarmi dentro quella strana stanza, pur di sfuggire a quegli occhi ricolmi d’ira.

«Mi dispiace...» sussurrai, provando a scusarmi, e riuscii a vedere a malapena il movimento fulmineo della sua mano che si richiuse su mio braccio per strattonarmi in avanti.

Strinse la presa e fui pervasa da una scossa di terrore, mentre mi costringeva a seguirlo su per le scale, fino alla cucina. Poi, senza dire una parola, raggiunse la sua stanza in un continuo sbattere di porte, finestre e quelle che immaginai essere le ante del suo armadio, finché non ne riuscì indossando una tuta ed un borsone issato sulla spalla. Mi lanciò un’occhiata truce e uscì di casa, dando un violento colpo al portone.

Restai aggrappata al tavolo della cucina, esattamente come lo ero stata dal momento in cui mi aveva trascinata lì, per darmi la forza di non crollare a terra spaventata.

In quei pochi minuti avevo avuto davvero paura di Aaron e di una sua reazione, tanto che quello stupido muscolo involontario continuava a martellare così forte da rimbombarmi nelle tempie, in un moto doloroso e frustrante. Ripresi lentamente a respirare con regolarità, senza neanche riuscire a capire per quanto tempo ne avessi fatto a meno; probabilmente troppo, perché il ritorno dell’aria nei polmoni, quasi mi ferì con un bruciore acuto.

Blowing BubblesWhere stories live. Discover now