ίζημα (precipitare)Spesso gli avvenimenti tragici si percepiscono sottopelle, ancor prima che accadano; si sente il dolore nella membra che arriverà.
E la mia pelle non ha sbagliato, ha previsto realmente una tragedia.
«Diana, ascolta.»
La mia vicina di casa mi ferma, tornata da scuola, prima che possa oltrepassare il portone.
«Si tratta di tuo padre.»mi dice.
Rimango ferma, sostengo i pezzi di me che sento da un momento all'altro mi travolgeranno, li blocco, lotto per non farli cadere.
«È stato portato all'ospedale.»mormora.
E li sento, li percepisco che inziano a cadere, fatico a sostenerli; ma ci provo disperatamente.
«Aspetta, ascolta. Respira e stai calma.» istruisce.
Non sto respirando?
Non sono calma?
Eppure io l'ossigeno lo sento. Io sto respirando.
«Diana, stai avendo un attacco di panico. Concentrati sulla mia voce, sul mio respiro. Così, brava.»
Mi parla, mi alza dal fondo.
E ce la faccio. Risalgo, respiro di nuovo.
«Bravissima tesoro. Ora ascoltami, tuo padre è stato portato all'ospedale, perché ha avuto problemi respiratori questa mattina. Durante l'incidente ha ingerito sostanze cancerogene ed è stato ricoverato.» mi spiega.
E ora lo sento chiaramente sulla mia pelle il muro che ho costruito per sostenermi cadere inesorabilmente.
«Stai tranquilla, non devi preoccuparti, i dottori si prenderanno cura di lui, te lo prometto.»
Cosa faccio?
Tutto le mie mura si stanno distruggendo, mi stanno schiacciando.
«Non può lasciarmi anche lui Madeleine. Io sarò realmente sola, fisicamente e psicologicamente. Come faccio, adesso?»
Sto piangendo e parlare diventa difficile.
«Diana ti accompagno all'ospedale, lo vai a trovare e vedrai che andrà tutto bene, ti va?»
Annuisco e lei mi cinge le spalle con un braccio, forse è riuscita a vedere i pezzi del mio muro cadere.
Arrivata all'ospedale, l'odore del disinfettante mi dà alla testa e il bianco asettico delle mura mi provoca brividi dietro la nuca, ma provo a non badarci.
Cerco anche di non curarmi delle mani che tremano, mentre mi dirigo, accompagnata da Madeleine, verso la stanza di mio padre. Tutto si distrugge in me, però, quando lo riconosco su una barella trasportata in sala operatoria d'urgenza.
Non rimango nel beneficio del dubbio, perché ho capito che è mio padre. Come potrei non riconoscerlo?
Sono parte del suo sangue, conosco addirittura il suo odore, che prevale su quello del disinfettante. La conferma che quello è mio padre, arriva dallo sguardo preoccupato di Madeleine.
«Cosa è appena accaduto a mio padre?» domando, la voce intrisa di panico.
«Diana non preoccuparti, chiedo subito informazioni ai dottori, aspettami qua.
E se non riuscissi a respirare, non farti prendere dal panico e vieni a chiamarmi.»
Rimango seduta su una sedia di plastica scomoda, stordita, immersa in un groviglio di persone e dottori, ma pur sempre sola.
Quando Madeleine torna, respirando affannosamente e avvisandomi che mio padre è stato operato d'urgenza, per aver riscontrato problemi respiratori, cado letteralmente a pezzi, sotto il peso del dolore.
Mi volto, vado via, non mi curo della sua voce che mi chiama, non bado al bruciore intenso che sta attanagliando i miei polmoni. Scappo, mi allontano da quel male e cammino sino a casa, alla disperata ricerca di un po' di conforto.
Ma chi può confortarmi, ora che sono sola?
Perché è vero, la realtà mi ha colpita nuovamente troppo in fretta.
Sono sola, completamente.
Salgo in camera, avvolta dall'opprimente buio della sera invernale. Sono così confusa e stordita, che neanch'io mi rendo conto di ciò che sto facendo, sino a che non mi ritrovo con la lampada del mio comodino in mano.
«Esci, sono sola. Mostrati, codardo, non nasconderti nel buio.» grido devastata, alla sagoma in fondo alla mia stanza. Sono ancora estremamente convinta ci sia qualcuno, forse il mio angelo custode.
E, realmente, lo sto sperando ardentemente, perché ho una paura morbosa di rimanere sola.
Scaglio con forza l'oggetto verso la parete, non aspettandomi che da lì esca qualcuno, ma sperandolo.
E poi lo sento.
Un gemito strozzato, di dolore.
E sono sicura non siano i miei, che ormai vanno avanti da ore. Mi muovo velocemente verso la finestra aperta, nell'intento di chiuderla, per impedire a chiunque sia nella mia stanza di uscire.
Poi percepisco, prima che riesca a serrare l'anta, uno spostamento d'aria e mi ritrovo faccia a faccia con una persona.
Un ragazzo.
E l'ansia mi avvolge, mi invade le membra.
Ma ora quella paura morbosa della solitudine si affievolisce, mi oltrepassa.
Perché non sono più sola, perché davanti a me vi è un angelo, letteralmente.
Scorgo lo sfarfallare delle piume delle sue ali, dietro di lui.
Il mio angelo custode, forse.
Ma è sbagliato, sapete, fidarsi, abbassare la guardia, perché appena lo si fa, un nuovo male è pronto a travolgerci.
Io ho abbassato la guardia e ho sbagliato.
Vedo l'angelo avvicinarsi pericolosamente al mio viso e poi lo fa, non mi aspetta, non mi dà il tempo di ragionare, non si cura di me.
Mi prende le spalle e con una forza che non avrei immaginato mi scaglia a terra.
Il colpo mi stordisce, mi fa vibrare le ossa e mi fa scoppiare la testa. Sono a terra, gli occhi invasi dal buio.
Lo percepisco ancora, però.
Sento un battito d'ali, che mi scuote i capelli e l'aria che mi investe il viso e poi vola via, non si preoccupa per me.
E io mi sento affondare, la delusione e la tristezza mi levano il fiato e la consapevolezza di ciò che è appena accaduto mi travolge.
Sono precipitata, ho toccato il fondo, letteralmente.
E non vi è nessuno che può aiutarmi ad alzare.
Sono sola.a/n
insomma Luke è il prototipo di un angelo!
La storia sta prendendo forma lentamente e con il passare dei capitoli le situazioni saranno più chiare.
Al prossimo aggiornamento!

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Autophobia (Luke Hemmings)
Fanfiction«E mi lasci anche tu, Luke, mio angelo? Scappi, mi abbandoni? E non mi aspetti, vai avanti, mi sorpassi e non guardi indietro. Non ti giri per vedermi distrutta nella solitudine? Ma non ti preoccupi per me, non ti curi di questa divinità senza ali.»...