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κλάματα (lacrime)


«Oggi è meglio di ieri?»
Harry me lo domanda ogni mattina a scuola, ma io non rispondo, perché a me basta così e so che lui non mi obbligherebbe a parlare, a tirar fuori ciò che ho dentro.
Ma oggi è meglio di ieri?
Non lo so, perché oggi sono ancora sola, perché oggi quel peso mi brucia ancora nell'anima, perché mio padre è in ospedale e l'angelo non si è svegliato, allora oggi non è meglio di ieri.
Oggi è come ieri.
Mi porge il suo braccio, per farmi sostenere e io mi aggrappo inevitabilmente a lui che è la mia ancora, che mi trattiene al fondale della razionalità.
Harry è pazienza, è presenza. Lui c'è, mi ascolta, mi consola e non mi giudica. Perché quando anche le parole sono superflue, lui sa tenermi in alto, mi trattiene dal precipitare a fondo, senza parlare.
Sono arrivata davanti alla mia classe e so che devo entrare, per questo la tristezza mi avvolge.
«Ci vediamo all'uscita, va bene?»
Harry me lo chiede anche se sa già la risposta, forse solo per abitudine.
Ma sa che non va tutto bene, sa anche lui che tra quelle mura la solitudine si fa sentire più ardentemente, perché sa anche lui, che tra le persone della mia classe, sono sola comunque.
Non posso rispondere e abbasso lo sguardo.
E allora lui mi attira a sè, delicatamente perché ha paura di ferirmi.
Mi rassicura, mi culla, mi stringe, mi accarezza, mi cura.
«Diana sono solo cinque ore poi ci vediamo, e non sarai più sola.» mi sussurra.
«E ci possiamo vedere anche durante la ricreazione se vuoi, si?»
Non rispondo.
Ma poi so che devo farlo, per lui.
«Certo. Ci vediamo dopo. Grazie Harry.» gli dico, ma non ho quasi più voce.
«Grazie per esserci sempre.»
Lui mi accarezza il capo e mi porge un sorriso allontanandosi velocemente. Arriverà in ritardo a causa mia.
E ora io sono sola. Entro in classe e mi scuso per il ritardo. Mi scuso perché non ho alternative, perché dovrei scusarmi per il mio essere, per lasciarmi sopraffare sempre dal dolore.
Dovrei scusarmi per molte cose.
L'insegnante non si preoccupa di me, del mio ritardo, perché quasi ogni mattina è così.
Ogni mattina la debolezza mi trascina a fondo e Harry mi tiene, mi aiuta a rimanere in piedi.
Mi dirigo nel banco in ultima fila, nascosta dalla maggior parte degli sguardi e mi volto verso la mia compagna di banco,
Angélique Lefevre, che mi fa un piccolo cenno di saluto, incominciando nuovamente, poi, a prestare attenzione ai suoi capelli ramati. Ma non mi parla, mi guarda per poco, forse perché ha paura che guardandomi il mio dolore potrebbe assalirla, ma così io vengo trascinata a fondo dalla solitudine, così mi uccide.
E allora le porgo un sorriso, che forse un sorriso neanche è, e mi siedo, con il peso sulle spalle del tempo che dovrò trascorrere tra queste mura.
Per quasi due ore sono calma, il dolore è come anestetizzato, io sono ferma, quasi vorrei dormire per perdere coscienza e non dovere sopportare tutto. Alla terza ora, però, la solitudine torna, mi assale, mi trascina a fondo, mi leva il fiato.
Mi guardo attorno nel panico, chiedo aiuto con lo sguardo, perché di parlare non ne ho la forza e il coraggio.
E vedo gli altri che un po' mi guardano, ma poi distolgono lo sgaurdo. E io rimango ancora sola, a lottare, perché nessuno si accorge che mi sento male.
Mi alzo di scatto e faccio appello a tutte le mie forze per chiedere il permesso di andare in bagno. L'insegnante questa volta, forse, se ne accorge che sto male e quindi mi domanda se mi sento bene e io dico che è solo emicrania, che poi mi passa; anche se sono consapevole non sia vero.

«Diana che succede?» mi domanda allarmato Harry.
È arrivato subito nel bagno, quando, nel panico gli ho inviato un messaggio con una richiesta d'aiuto.
«Non capisco Harry, mi sento tremendamente male. Non riesco a respirare.» ansimo.
Harry, non si fa prendere dal panico, è lui quello forte nella coppia. È il mio punto fermo e se si permettesse di barcollare, lasciarsi andare, allora io cadrei rovinosamente.
Mi prende le mani tra le sue più grandi, sa che questo semplice gesto mi infonde calma, e mi conduce vicino al lavandino.
«Sciacquati il viso, starai meglio.» istruisce.
«Non posso.» mormoro, avvolta da un panico maggiore.
Lui mi guarda interrogativo e preoccupato.
«Mi andrebbe via il rossetto.» spiego.
Harry capisce.
«Diana...starai meglio con l'acqua fresca.»
«Non voglio che gli altri vedano le cicatrici sulle mie labbra.» mormoro.
«Nessuno se ne curerà. E ormai sono sicuro non si vedano più.» mi parla lentamente.
«Ci sono ancora, invece, e sono fresche. Mi mordo le labbra quando sono nel panico o in ansia e lo sono ancora. Quindi si vedono.»
Harry sospira tristemente.
«Voglio solo andare a casa, per favore Harry.»
Poi, però, ricordo che a casa non vi è neanche più mio padre a consolarmi.
Un forte senso di nausea mi scuote i sensi.
C'è solo l'angelo, che non si cura di me.
«Ti prego mi porti a casa? Hai la macchina e dopo potrai subito tornare a scuola.» balbetto nel panico.
«Solo, fammi chiedere un permesso al preside.» mi rassicura.
Annuisco e lo aspetto nel bagno.
Arriva quasi immediatamente.
«Sei fortunata, sono riuscito a convincere il preside Bertrand
con il mio fascino.» cerca di farmi ridere.
Sorrido debolmente.
Harry è fatto così.
Puro, semplice. Farebbe di tutto per rendermi la giornata migliore.
«Grazie infinite, ti voglio bene.» gli mormoro.

Mi accomodo nell'abitacolo caldo della sua macchina, avendo una tregua dal freddo invernale, che però non mi infastidisce più di tanto.
Amo il freddo.
Il caldo, invece, lo odio.
Le vene si gonfiano, il sangue scorre velocemente e le tempie pulsano.
Ma il motivo per cui lo odio, è molto più profondo.
Durante l'incidente, il calore era assurdo.
Quindi tiro giù leggermente il finestrino.
«Vuoi farmi congelare, Di?» mi domanda Harry, con ghigno divertito.
«Lo sai non mi piace il caldo, scusami.»
Ed è inevitabile. Inizio a sentirmi in colpa per una semplice questione, nonostante sia cosciente del fatto che Harry scherzi.
Mi odio così tanto in questo momento.
«Diana, sto scherzando. Non dispiacerti.» mi dice dolcemente.
Annuisco tristemente.
Dopo alcuni minuti, Harry spezza il silenzio creatosi tra di noi.
«Puoi aprire direttamente la portiera, se hai caldo.» Ride leggermente, alleggerendo l'aria.
Sorrido.
«Sai, Harry, mio padre è stato ricoverato in ospedale.» dico d'un tratto.
«Ha ingerito sostanze cancerogene durante l'incidente.» spiego.
Ho sentito l'impellente bisogno di liberarmi, almeno in parte, del peso che grava nel mio petto.
«Oh Diana, perché non me ne hai parlato prima, avrei potuto starti vicino.» dice Harry, tristemente.
«Non ce n'era bisogno, davvero. Non voglio coinvolgerti troppo nei miei problemi, tu fai così tanto per me Harry.» gli confido.
«Vuoi che ti porti all'ospedale da lui?» mi chiede.
«Se non ti dá fastidio. Dovresti tornare a scuola, sai?»
«Posso farne a meno di stare lá.» confida, con una smorfia che mi fa sorridere.
Arrivati all'ospedale, dopo aver chiesto il numero della stanza di mio padre, mi dirigo verso essa.
«Io ti aspetto qua Diana, non preoccuparti. E stai tranquilla.»
Faccio appello ad ogni mia forza e al mio coraggio per entrare all'interno. Come sospettavo, mio padre respira mediante apparecchi appositi.
Rimango sconvolta comunque, travolta dallo shock.
Ma devo essere forte, l'ho imparato proprio da Harry.
Io sono la più debole dei due e quindi lui deve essere l'opposto, per me, per tenermi e non farmi cadere a fondo. Ma ora il più debole è mio padre e devo essere forte per lui.
«Papà.» mormoro. E le sento le lacrime, pronte a cadere dai miei occhi, sul ciglio di essi. Le scaccio via, con un gesto stanco.
Lui apre gli occhi lentamente.
«Diana, piccola mia.»
E lui può permetterselo di essere debole, perché devo essere io a sostenerlo.
Le lacrime rigano il suo viso stanco.
«Si papà, sono io.»

Perdo totalmente la cognizione del tempo stando in quella bianca stanza asettica. E così dopo ore ed ore di parole e pianti da parte di mio padre, sono costretta ad uscire poiché troppo tardi.
E appena la porta si chiude alle mie spalle, posso concedermi di crollare, totalmente. Mio padre ha riscontrato anche lesioni, causate da un metallo che gli ha perforato i polmoni, durante l'incidente.
Rimango totalmente sorpresa nel vedere Harry, addormentato sulla scomoda sedia, ad aspettarmi.
Mi avvicino lentamente e gli sfioro il viso, spostandogli un riccio dagli occhi.
Li apre immediatamente, spaesato.
«Diana?»
Annuisco.
«Va tutto bene, scusa ti ho fatto aspettare molto. Ma ora possiamo andare a casa.» dico, con voce tremante.
«Hai pianto, come sta tuo padre?»
«Non preoccuparti, va tutto bene.»

Coinvolgo Harry in un profondo e disperato abbraccio, una volta giunta sulla soglia di casa.
«Grazie ancora per tutto.»
Lui mi accarezza la testa, mi lascia un bacio in fronte e salutandomi va via.
Entro in camera mia e apro la porta velocemente, col fiato sospeso. Invasa dal panico di non trovare più l'angelo sul mio letto. Mi mordo le labbra in ansia.
E invece eccolo lì, nel suo splendore, abbandonato ad un sonno profondo.
Mi arrampico sul letto, stendendomi vicino a lui.
Prendo le sue mani tra le mie, appoggio il viso al suo braccio e scoppio inconsapevolmente a piangere.
Lascio uscire tutto ciò che ho trattenuto nell'ospedale.
Piango, piango, e piango ancora. Forse per ore.
«Non piangere più, le tue lacrime mi devastano.»
Una voce incredibilmente bassa e che potrei definire paradisiaca.

a/n
mi è piaciuto scrivere dell'amicizia tra Harry è Diana e spero sia piaciuto a voi leggerla!

Autophobia (Luke Hemmings)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora