Capitolo 12 - Remissionem

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Il cellulare di Trevor vibrò. Il moro sbuffò, lasciando il bilanciere per afferrare l'aggeggio che si muoveva, producendo quel fastidiosi o suono della vibrazione sulla sedia sulla quale era poggiato. Lo sollevò e lesse il nome sul display, sbuffò e lo silenziò. Non aveva intenzione di interrompere i suoi esercizi in palestra per rispondere a quella chiamata. Ritornò al bilanciere, quando l'aggeggio riprese a suonare. Trevor imprecò e lo silenziò nuovamente. La scenetta si ripeté, il telefono vibrò nuovamente.

«Fanculo, Donovan!» disse ad alta voce, premendo l'icona verde che indicava "rispondi".

«Liam, che cazzo v... sì, sono io. Sì. No. Cosa? No, chiami qualcu... ma come diavolo... arrivo subito.»

Trevor si alzò, dirigendosi rapidamente in spogliatoio. Si cambiò senza dire una parola e uscì dalla palestra. Salì sulla sua auto e percorse la strada che lo separava dall'ospedale Saint John di New York. Appena raggiunse il posto, parcheggiò e salì con l'ascensore sino al ricevimento. Lì, si mise in fila dietro alle persone che attendevano di essere chiamate. Quando fu il suo turno, salutò la signorina del banco accettazione.

«Cerco Liam Donovan. Ha... ha avuto un incidente. Non so se sia vivo o morto, non me l'hanno detto,» spiegò. Lei digitò qualcosa nel computer, poi lo fissò.

«Lei è un parente?» domandò. Lui scosse la testa.

«No, ma sono il suo contatto d'emergenza. È maggiorenne quindi è legale che lo abbia e, seppur non sia un parente, è legalmente designato a intercedere per lui in queste situazioni,» snocciolò Trevor, tutto d'un fiato. Lezioni importanti che aveva imparato nella vita, tra avvocati e non. La sua famiglia non si faceva mai mancare di questi colpi di scena.

«Ha ragione, signor...?» chiese la signorina.

«Mulgrew. Trevor Mulgrew. Ora, per gentilezza, mi può dire cosa è accaduto al mio amico?» utilizzò quell'espressione, nonostante non fossero più propriamente amici. Ma, dinnanzi a situazioni di quel genere, cambiava tutto.

«Io non ho l'autorizzazione a dirle nulla, mi dispiace. Deve salire al quinto piano e rivolgersi al dottor Freyrs,» intimò la signorina. Lui annuì e così fece. L'ascensore si aprì e lui proseguì sino al banco accettazione di quel piano. Il ragazzo della reception lo guardò.

«Prego?» disse.

«Cerco il dottor Freyrs,» disse Trevor. Lui indicò un corridoio attiguo. Trevor si diresse lì, superò la zona e vide un medico in piedi dinnanzi ad una porta chiusa. Si avvicinò e si schiarì la voce.

«Dottore?» chiese il moro. Questi si voltò, mostrando una targhetta con sopra inciso "Freyrs".

«Lei dev'essere Trevor Mulgrew. Ebbene, vuole prima la notizia buona o quella cattiva?» domandò questi. Trev scosse la testa.

«Me le dica e basta,» rispose, risoluto l'altro. Il dottore annuì.

«La notizia buona è che i suoi amici sono vivi. Quella cattiva è che... uno dei due potrebbe non esserlo ancora per molto,» spiegò. L'altro lo fissava, in attesa di più dettagli.

«Li hanno tirati fuori dall'auto, uno era sveglio e vigile, aveva riportato delle ferite ma il colpo era stato attutito dagli air bag e dal corpo dell'altro, che, presumibilmente, si è sporto o allungato per cercare di proteggere l'amico. L'altro, quello che ha subito l'impatto, è molto grave. Abbiamo indotto il coma farmacologico, l'abbiamo operato d'urgenza. È in terapia intensiva, ora è stabile ma... se non si sveglia entro oggi, ci sono altissime probabilità che non si sveglierà mai,» chiarì il medico. Trevor lo guardò, poi annuì.

«Voglio vederli,» decise. Doveva capire se Liam stava bene o no. L'altro era Erik, suppose, e di lui poco gli importava. In realtà, anche di Liam. Però, glielo doveva. Lui l'avrebbe fatto per Trevor. Il dottore lo guidò lungo il corridoio e aprì la porta di una stanza. Trevor entrò. C'era un letto, con le lenzuola bianche. Sopra di esso, un ragazzo con le flebo iniettate e gli occhi chiusi. Trev abbassò lo sguardo sul pavimento quando riconobbe il volto. Si sedette sulla prima sedia che era posizionata sul lato destro della camera. Era successo veramente. Liam aveva avuto l'incidente, ed Erik era in coma. Liam stava bene. Un peso si spostò dal petto di Trevor. Si sentiva meglio. Liam era vigile, diceva il dottore.

«T-Trevor?» sentì dire dalla flebile voce di Liam. Aveva aperto gli occhi, quei pozzi azzurri che lo fissavano. Trev sorrise.

«Sono qui, Liam. Sono qui,» disse, semplicemente. Ma lui scosse la testa, indicando il bicchiere. Trev glielo porse e lo aiutò a bere. Poi, Liam lo fissò.

«Erik,» nominò l'altro. Trev fu scosso da un fremito. Non sapeva cosa gli fosse accaduto. Chiuse gli occhi. Liam capì subito cosa era successo. Trevor non era mai stato bravo a nascondergli le cose.

«È vivo?» insistette Liam, pervaso da un senso di dolore, angoscia e disperazione. Ricordava il Tir. Ricordava Erik, che si era piegato su di lui per evitargli l'impatto. Ricordava il dolore, le orecchie che non sentivano i suoni, la vista annebbiata. La paura. Poi, la gente attorno. Una ragazza l'aveva aiutato. Era la ragazza che lui aveva salvato dallo stupro qualche girono prima. Sembrava una vita fa.

«È vivo. Ma morirà, secondo il dottore che lo sta curando. È in coma, stabile ma è tipo un vegetale,» spiegò Trev. Non aveva tatto per quelle cose. Liam chiuse gli occhi. Erik sarebbe... morto? Era tutta colpa sua. Lui l'aveva distratto dal guidare. Lui l'aveva fatto voltare. E tutto per quella stupida lettera dello stupido nonno del fottuto Trevor Mulgrew. Lo stesso Trev che l'aveva insultato giorni prima, in quell'istante era sorridente dinnanzi a lui. La coerenza...

«Perché sei qui, Trev?» domandò, fissandolo.

«Ho saputo e... ho temuto il peggio. Ma tu stai bene e... scusa per quello che ti ho detto. Se ti piace il cazzo mi va bene, basta che non ci provi con me. Sei sempre tu, sei Liam, mio fratello,» rispose, sorridendo. Liam scosse la testa.

«Ci vorrà più di questo per farti perdonare. Molto di più. Vai via, Trevor. Voglio restare solo,» intimò il biondo. Trevor annuì, uscendo dalla stanza e chiudendo la porta. Liam contò fino a tre, poi si staccò le flebo, si tolse la coperta e si alzò. Era in mutande con solo il camice addosso. Prese i pantaloni dalla sedia: le infermiere li avevano lavati e piegati, così come la maglietta. Si vestì a fatica, aveva dolore al braccio sinistro e alla gamba. Appena finì, uscì dalla stanza, con la testa che gli doleva. Arrivò all'accettazione e si fece dire dal ragazzo dove fosse Erik. Era in terapia intensiva. Superò il corridoio C e aprì la porta della stanza in cui era addormentato Erik Greynolds. Lo guardò nel letto. Era malandato, aveva ferite lungo tutto il corpo. Tanti aghi gli iniettavano sostanze, morfina, sostanze nutritive supponeva. Aveva l'espressione serena sul volto. Sorrise, avvicinandosi e prendendogli la mano.

«Erik, so che mi senti. So che ti sveglierai. Me l'hai promesso, che non mi avresti lasciato da solo. Ti prego, Erik. Ti prego. Non puoi lasciarmi. Non ora. Io... credo di essermi preso una bella cotta per te. Sei così dolce, sei... schifosamente etero. È una cosa sexy, eh. Sei premuroso. È tutta colpa mia, Erik. Svegliati, così potrai darmi i due pugni che mi devi,» disse quelle parole tra lacrime e sorrisi, poi si sedette lì, accanto al letto di Erik, e chiuse gli occhi, inspirando il dolce profumo dell'acqua di colonia che portava il moro.

Just Friends (Trilogy of Secrets, 1)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora