Non so come Michael ci sia riuscito, ma alla fine mi ha convinto: eccoci qui, in mezzo a quello che apparentemente sembra un adorabile giardino inglese, pieno di siepi, alberi, fontane maestose e sentieri di ciottoli, per poi rivelarsi ciò che è veramente non appena lo sguardo incontra persone inginocchiate e in preda alla disperazione o - molto più doloroso da vedere, per quanto possa sembrare strano - in piedi e con il viso impassibile, privo di emozioni e rivolto verso la lapide di qualche parente, amico o amante che ha lasciato questo mondo e una profonda tristezza nel cuore di chi l'ha amato finché era in vita e non può che continuare a farlo fino al proprio ultimo respiro.
«No, no, no. Non era qui,» borbotta Michael, che da circa mezz'ora cerca di orientarsi in questo cimitero, rivelatosi un vero e proprio labirinto. «Proviamo da questa parte.»
Continuo a seguirlo senza fiatare, dal momento che questo posto riesce a farmi sentire come se stessi soffocando, nonostante il venticello che soffia fra gli alberi e il sole splendente di questa mattina, e sono certo che non riuscirei a pronunciare una sola frase di senso compiuto se aprissi bocca.
A pensarci bene, questa è la prima volta che metto piede in un cimitero, per quanto mi ricordi: i miei nonni sono morti quando ero ancora molto piccolo o quando addirittura non ero ancora nato e non ho mai avuto la possibilità di andarli a trovare in Nuova Zelanda per portare loro dei fiori. In realtà, penso si tratti più di coraggio, ciò che veramente mi manca per sedermi accanto alle loro tombe e realizzare che non sono qui con me. Credo che ognuno di loro sarebbe stato in grado di trovare le parole giuste da dirmi in questo momento, mentre cerchiamo la tomba di Cameron Bennett e mi sento quasi morire dentro per ciò che le ho fatto senza avere la possibilità di chiederle scusa, ma non le sentirò mai. Posso solo immaginare che siano qui, accanto a me.
«C'era una siepe a forma di angioletto. O forse era un putto. Insomma, qual è sostanzialmente la differenza tra-»
«Una siepe come quella?» mi sforzo di chiedere, interrompendo quello che si prospetta come uno dei più lunghi monologhi del mio migliore amico, oltre che il più futile.
Michael guarda verso la direzione da me indicata e il suo viso si illumina grazie ad un enorme sorriso. «Sì!» esclama, gioioso come un bambino il giorno di Natale. O, piuttosto, come se stesso il giorno di Natale. Direi che rende meglio l'idea. «Pensi sia un angioletto o un putto?» chiede poi, continuando con questa stupida storia.
«Penso solo che sembrerà più che altro Godzilla se il giardiniere non si sbriga a dargli una potatina nel giro di un paio di giorni,» commento, sarcastico, per poi spalancare gli occhi non appena intravedo una figura che mi sembra fin troppo familiare: la mamma di Cameron. «Cazzo, c'è la signora Bennett!» esclamo, cercando di nascondermi come meglio posso dietro un'aiuola dalla forma indecifrabile.
«Dici sul serio?» chiede Michael, la voce più alta di qualche ottava come quando mente, senza ovviamente riuscirci.
«Michael,» lo richiamo, mentre lui guarda con finta incredulità la donna. «Tu lo sapevi?»
«Cosa?»
«Che sarebbe stata qui proprio oggi, il giorno in cui siamo venuti a trovare Cameron.»
«E come avrei dovuto saperlo?» chiede, con una risatina nervosa. È, in effetti, una domanda del tutto ragionevole, ma io conosco Michael: è capace di questo e ben altro.
Incrocio le braccia al petto e lo guardo, facendogli capire che non me la bevo. «Ah, non lo so, dimmelo tu. E non provare a mentire, il tuo tono di voce ti ha già smascherato.»
Michael rimane in silenzio per qualche istante, di sicuro valutando le varie possibilità. È questione di pochi istanti prima che sospiro lasci le sue labbra, confermando le mie supposizioni. «Diciamo che potrei - ipoteticamente parlando, eh - aver pedinato la signora Bennett per circa una settimana, aver scoperto che porta dei fiori a sua figlia ogni giorno a quest'ora e-»
«Michael!»
«Senti, era necessario,» continua, gesticolando. «Perciò adesso dovresti andare lì e cercare di parlarle: è il minimo dopo tutto il mio lavoraccio, non credi?»
«No che non credo, dato che la signora Bennett ci ha già fatto capire che non vuole avere niente a che fare con noi. Tra l'altro, mi hai convinto a venire qui stamattina per salutare per l'ultima volta Cameron, non per...» lascio la frase in sospeso, sentendo dei singhiozzi soffocati. Dopo qualche istante di troppo, mi accorgo che la donna ha iniziato a piangere, pulendo la lapide della figlia da fiori e foglie secche.
«È il momento buono, Calum!» esclama Michael, spingendomi con poca delicatezza lontano dalla siepe, verso la signora Bennett.
«Non è assolutamente il momento buono!» provo a protestare, sapendo che è in realtà il peggiore. Cosa dovrei dirle in un momento come questo? Un momento così intimo, in cui sta piangendo per la morte della figlia? Qualsiasi parola sarebbe di troppo, così come la mia presenza stessa.
Tuttavia, nonostante la mia intenzione di non farmi vedere e scappare il più lontano possibile da lei, riesce a sentire i miei passi e si volta subito verso di me. Si asciuga in fretta le lacrime e sembra riconoscermi, anche se non mi rivolge lo stesso sguardo gelido della prima volta che ci siamo incontrati. Sorride amaramente, prima di rivolgere di nuovo lo sguardo alla lapide.
«Se n'è andata...» sussurra e nel suo tono di voce c'è ancora l'incredulità tipica di una mamma che non ha affatto realizzato che sua figlia, la sua bambina, non è più accanto a lei: non la vedrà più sorridere, stringendo i suoi occhi nocciola a due piccole fessure; non accarezzerà più le sue guance paffute e ricoperte di lentiggini; non la vedrà mai in abito bianco, pronta a camminare verso il suo sposo con un bouquet di fiori vivaci come lei e colorati in mano; non la vedrà vivere e aveva praticamente appena iniziato a farlo. Cameron Bennett aveva un'intera e meravigliosa vita davanti a sé, ma non potrà viverla. «Angioma al cervello. Sarebbe ancora qui, se solo avessero anticipato l'intervento di qualche giorno. Abbiamo donato tutti gli organi possibili e so che continuerà a vivere nelle persone che ha salvato, in qualche modo.»
Abbasso lo sguardo e rimango in silenzio, sapendo di non poter dire nulla. Mi limito a stringere la donna fra le braccia, anticipandola di qualche secondo.
Mi dispiace, Cameron, per tutto. Spero tu possa perdonarmi un giorno, lassù, in mezzo agli angeli.
«Calum!»
La voce di Michael attira la mia attenzione e quella della signora Bennett, ancora in lacrime, ma ciò che mi preoccupa è il suo tono di voce, a dir poco scioccato.
Mi giro verso di lui e lo vedo con il cellulare in mano.
«Dobbiamo andare subito al Norwest Christian College. Si tratta di Mark Yates.»
«Ma-»
«Vuole uccidersi, Calum.»
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Non uccidetemi, vi prego! So di aver appena sganciato una bomba assurda, ma almeno ho aggiornato presto, concedetemelo. Tra l'altro, il prossimo capitolo sarà l'ultimo prima dell'epilogo, perciò sono incredibilmente triste, come se il capitolo non fosse abbastanza.
A questo proposito, vorrei dedicare il capitolo a un ragazzo di vent'anni che frequentava la mia scuola e che è morto di angioma tre settimane fa, un ragazzo brillante e con un incredibile futuro davanti. I suoi organi, tutti sani, sono stati donati e penso che non ci sia gesto più bello in sua memoria, davvero.
Volevo dire solo questo, perciò adesso vi saluto💖❤
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My Victims || Calum Hood
Fanfiction«In questi anni hai scritto su un'agenda nera tutte le persone che hai picchiato?» chiede Michael, incredulo. «Dio mio, Hood, sei più perfido e organizzato di quanto potessi immaginare!» esclama poi, fingendo un tono indignato. N.B.: non è propriame...