20. Take a deep breath

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Corro. Corro e mi manca il fiato, ma non posso smettere proprio adesso. Corro e sento le mie gambe bruciare per lo sforzo, ma so che un solo secondo potrebbe fare la differenza in un momento come questo. Corro e mi chiedo cosa diamine possa essere successo, perché la mia vita sia diventata una vera e propria corsa contro il tempo da quando ho avuto la malaugurata idea di scrivere su un'agendina nera i nomi delle persone che ho picchiato senza che restituissero il favore, per così dire, ma non trovo alcuna risposta. Sento solo qualcosa dentro di me, all'altezza del cuore, che mi spinge a correre ancora più velocemente perché so, in qualche modo, di essere la causa per cui Mark Yates vuole togliersi la vita e, se non riuscissi a fermarlo, non me lo perdonerei mai.

«Manca poco,» mi ripeto, con il fiatone, cercando di autoconvincermi di potercela fare.

Poi, quando finalmente intravedo il cancello del Norwest Christian College, prendo in considerazione l'idea fermarmi per riprendere fiato e lasciar riposare i polpacci, ma mi insulto mentalmente e mi affretto ad entrare, seguito da Michael.

Quello che trovo mi lascia senza parole: centinaia di studenti riversati nel giardino della scuola, auto della polizia, vari poliziotti e il preside che parlano con quello che deve essere il padre di Mark, disperato e con le lacrime agli occhi, mentre un altro agente ha un megafono in mano e pronuncia parole che non riesco a sentire, rivolto verso il tetto della scuola. Solo dopo qualche istante, mi rendo conto con non poco orrore di cosa, o meglio chi, ci sia lì sopra: Mark Yates.

«Porca di quella-»

«Ragazzi!»

Mi interrompe una voce e mi accorgo presto che si tratta di Luke. Il ragazzo ci viene incontro di corsa e nel suo sguardo è facile vedere la preoccupazione provata per quello che sta succedendo.

«Dice che vuole buttarsi e, se gli sarà impedito, proverà a togliersi la vita in qualunque altro modo. Suo padre è disperato e non riesce a capacitarsi di tutto questo: ha già perso la moglie quando Mark era solo un bambino e non può essere abbandonato anche dall'unica persona cara che gli rimanga a questo mondo.»

Michael è visibilmente scosso, mentre io continuo ad alternare lo sguardo da Mark a suo padre e viceversa. So bene cosa significhi temere di perdere qualcuno a cui tieni e, proprio per questo, non posso permettere che succeda, per di più per colpa mia.

«Ma perché vuole farlo?» chiede il mio migliore amico, la voce tremante.

Luke non risponde, limitandosi a lanciarmi un'occhiata che riesco a cogliere con la coda dell'occhio. Tuttavia, non posso biasimarlo per avermi indicato come la causa di tutto, anche perché ha ragione, come sempre d'altronde.

Decido di ignorare entrambi e mi avvicino all'agente con il megafono in mano, senza però riuscire a raggiungerlo: un suo collega, infatti, mi ha appena bloccato per un braccio, spingendomi verso la direzione opposta.

«Non puoi avvicinarti a quest'area, ragazzino.»

«Devo parlare con Mark, subito: sono l'unico che possa fargli cambiare idea in qualche modo.»

L'uomo prova a ribattere, a giudicare dalla sua espressione scettica, ma gli viene impedito.

«Hood!» urla Yates, dal tetto. La sua faccia, vista da qui, sembra una maschera di follia: gli occhi spalancati e rossi, la pelle pallida e i capelli scompigliati dal vento. «Sparisci subito da qui: sei la causa del mio tormento e non voglio che tu sia l'ultima persona che vedo prima di morire e porre fine a tutto quanto. Ti odio, ti odio da morire!»

Le sue parole fanno male e so che ha ragione, ma proprio per questo devo riuscire a farmi perdonare e, soprattutto, a fargli capire che questa non è la soluzione, ma solo una scelta avventata.

«Mi hai picchiato senza motivo, hai alimentato l'odio del resto della scuola nei miei confronti e poi mi hai reso un mostro come te. Ti odio!» ripete, ormai con le lacrime agli occhi, e solo adesso riesco a rivedere in lui il ragazzino che era quattro anni fa, così diverso da quello arrogante e sarcastico i cui amici avrebbero voluto picchiare me e Michael. «Ogni singolo alunno del Norwest Christian College ha paura di me e abbassa lo sguardo solo a vedermi in fondo al corridoio e persino quelli che consideravo amici mi stanno vicini per timore.»

Toglie un piede dal tetto e lo lascia dondolare verso il vuoto, facendo urlare di spavento centinaia di ragazzi, me compreso.

«Non farlo, Mark!» urlo, con tutto il fiato che ho in gola.

«Perché? Per quale dannato motivo non dovrei, eh?»

«Perché sono solo un idiota. Puoi scendere qui sotto e picchiarmi, prendermi a pugni fino a farmi sanguinare e sentirti meglio, puoi-»

«Smettila, Hood! Non voglio più avere niente a che fare con la violenza, tantomeno con te!»

Ha ragione. Ha dannatamente ragione e il mio modo di pensare del tutto sbagliato mi fa capire che ho ancora molta strada da percorrere prima di realizzare del tutto questa cosa.

«Cerca di distrarlo ancora, così lo cogliamo alle spalle,» sussurra il poliziotto al mio fianco, ma a malapena riesco a capire le sue parole, troppo distratto a cercare qualcosa da dire che possa convincere Mark a cambiare idea, non costringerlo a farlo.

«Hai ragione, Mark. La violenza non porta da nessuna parte, ma pensi che quella contro te stesso sia da meno? Prendi un respiro profondo e rifletti seriamente su ciò che vuoi fare: ne vale la pena? Vale la pena togliersi la vita per un idiota come me? Far soffrire tuo padre? Perderti tutto ciò che il mondo ha ancora da offrirti? Non farlo, Mark. Puoi superare tutto, so che puoi farlo.»

Il ragazzo rimane in silenzio, lo sguardo perso nel vuoto. Posso quasi sentire il rumore dei suoi pensieri, di certo non molto diversi da quelli che hanno invaso la mia mente quando ho picchiato Kennedy Robinson, sentendomi persino più disgustoso di lui, e quando, la sera in cui sono andato a cercarlo nel pub, Michael mi ha bloccato dal farlo di nuovo, facendomi capire che era sbagliato.

Finalmente la sua espressione si anima di nuovo, ma un poliziotto lo afferra da dietro prima che possa dire qualsiasi cosa. Cerca di liberarsi dalla presa e, a causa della foga con cui lo fa, rischia di cadere dal tetto, ma si direbbe che questa volta non sia intenzionato a saltare, a giudicare da come sbarra gli occhi, impaurito, quasi si fosse reso conto solo adesso di dove si trova.

«Promettimi una cosa, Hood,» dice poi, quasi senza fiato.

«Qualsiasi cosa,» rispondo, senza pentirmene per un solo istante.

Mark sospira. «Dovrai aiutarmi.»

Guardo il ragazzo e non posso fare a meno di pensare ancora una volta a Robinson, alla voglia di procurargli del male fisico per ciò che ha fatto a mia sorella che spesso, fin troppo spesso, mi incendia l'anima. Chi dovrei aiutare, se io stesso non ho ancora superato veramente ogni cosa?

«Solo se tu aiuterai me.»

****
Sento che potrei piangere da un momento all'altro, sul serio, e non solo perché questo è l'ultimo capitolo prima del prologo, ma perché sento la tematica trattata molto vicina, visto che una persona che conosco ha tentato il suicidio a 16 anni.

Tra l'altro, ultimamente nelle note d'autore di questa storia parlo solo di cose tristi, perciò cambiamo argomento: ho promesso a una certa persona di dedicarle una storia, perciò non appena avrò pubblicato l'epilogo di questa inizierò a scriverla. Vi starete chiedendo perché ve l'abbia detto, no? Be', sarà molto simile a questa, in un certo senso, perciò spero che la notizia possa farvi piacere e interessarvi.

Faccio gli auguri anche qua, nel caso decida di pubblicare l'epilogo dopo Natale, e vi mando un bacio💕❤

My Victims || Calum HoodDove le storie prendono vita. Scoprilo ora