16. Passaggio

74 6 7
                                    

Boccheggiando sul sedile posteriore, abbarbicato a una Sonia ancora inerte, aprii il finestrino per ventilare meglio l'interno dell'abitacolo. Ce n'era bisogno, oh, se ce n'era!
Eravamo entrambi sudati e bagnati, appiccicati in un groviglio di braccia e gambe che nemmeno i più abili contorsionisti asiatici avrebbero saputo sciogliere. Tentai di guadagnare spazio e ossigeno spostandomi sull'altro lato, ma così facendo toglievo l'appoggio necessario a Sonia, sempre che le fosse stato effettivamente necessario. Se non lo fosse stato, lo era per me. Il mio bisogno di sicurezza nell'averla accanto e nell'ascoltarne il respiro era già un enorme sollievo. Mi sentivo tremendamente in colpa per quella pallottola, e decisamente inutile in quel frangente; per cui il mio appoggio, mi ero autoconvinto, sarebbe servito a farla respirare meglio e, quindi, a rinvenire prima. Convinzione allucinogena di un barista innalzatosi all'istante come medico delle cause perse...

Avevo appena abbassato il vetro quel tanto da consentire a un filo d'aria di passare senza dare troppo fastidio a nessuno. Sentivo il rumore delle sirene dietro di noi. Erano arrivati i rinforzi!

Mi aspettavo quindi di riuscire a respirare anch'io con più calma, più a fondo, di riordinare una a una le idee sconclusionate.

Strano: annaspavo in un mare di fumo. Mi sentivo delle mani addosso, che piano piano stringevano la gola... eppure non c'era nessuno che mi stesse strozzando. Sbirciai l'uomo al volante, l'unico che fosse nel pieno delle sue facoltà mentali, e rabbrividii. La sensazione di soffocamento aveva trovato la causa scatenante. L'occhiata obliqua che mi diede Simon dallo specchietto retrovisore non mi piacque affatto.

"Allora, compare, che succede di bello?"

Deglutii: avevo la gola secca: "Non fingere, compare! Sai già tutto, anzi, sapevi già tutto. Non potevi arrivare prima? Così non sarebbe..."
Mi interruppi in tempo, voltandomi verso Sonia. Non potevo nominarla o non avrei mai più saputo nulla di lei e, quanto a me... avevo una vaga idea di dove sarei stato portato. Per fortuna lei aveva una parrucca e del trucco impiastricciato. Forse Simon non l'aveva ancora riconosciuta. Mi inflissi nuovamente la dolorosa autoconvinzione che tutto sarebbe andato per il meglio: Sonia era irriconoscibile, Simon non l'avrebbe mai riconosciuta, io non avrei spiattellato inconsapevolmente nulla e tutti saremmo tornati sani e salvi a casa senza più scene hollywoodiane mortali, perché gli stuntmen si erano riuniti in sciopero, lasciandoci tutto il lavoro.

"...Così lei non sarebbe finita in mezzo per causa mia," borbottai, finendo la frase lasciata sospettosamente in sospeso. Era la verità, no? Fin qui non avrebbero dovuto esserci ulteriori  problemi.
"Già, ti sei tirato dietro una donna niente male. Peccato che le abbiano sparato... In ogni caso, se la caverà."
"Andiamo in pronto soccorso?"
"Certo. Sto facendo questo giro per depistare i nostri amici."
Non era vero. Quella strada la potevo percorrere anche a occhi chiusi e mi avrebbe sempre portato davanti alla centrale di polizia. Mi morsi il labbro fino a farlo sanguinare. Sonia...

Al mio fianco un singulto strozzato. Si era ripresa e aveva aperto gli occhi, pallida come un cencio.
"Simon, hai acqua?" parlai per primo, in modo che Sonia potesse intuire in che mani eravamo capitati.
"Come no! La vuoi liscia, gassata o tonica? Ragazzo mio, devi aspettare."

Nessuno sconto di pena, avevo già afferrato. L'investigatore aveva cominciato a dubitare.
Sonia non aveva detto ancora nulla, fissava fuori dal finestrino, tenendosi la spalla ferita.

"Devo vomitare."
Simon arricciò il naso: "Non qui dentro, bambola!"
Virò al primo vicoletto appartato. Frenò di colpo e la fece smontare. Sonia faticava a reggersi in piedi e tremava come una foglia. Volevo scendere per starle vicino, ma Simon mi intimò di rimanere fermo dov'ero. Bastava lui.
Potevo avvicinarmi di soppiatto e colpirlo alla nuca, prendere Sonia e fuggire con la sua macchina... Evidentemente ciò che pensavo era talmente lampante che non ebbi neanche modo di muovere il dito per aprire silenziosamente la portiera. Simon aveva indosso una maschera di ferocia. Annusai nell'aria l'intento di uccidere e, come un cucciolo colto in flagrante, abbassai le orecchie. "Non ci provare," me lo aveva sillabato con il labiale, il mastino. Per lui non ero che un bimbetto rompiscatole che doveva regolarmente tenere d'occhio affinché non combinassi guai.

Cosa potevo fare io, piccolo e ingenuo moscerino davanti a una tarantola golia, per aiutare la mia compagna di sventure?

A quel punto, disconoscendo il senso di terrore, non mi importava più di cosa mi sarebbe successo. Racimolato tutto l'orgoglio rimasto a un essere indegno, ero pronto a infrangere tutti gli avvertimenti.

Da dietro il lunotto arrivò lo sgommare di una Huracan. Come facevo a saperlo? Me lo chiedevo pure io, ma nei miei ricordi l'associavo a qualcosa di terribile. Sapevo che doveva essere una Huracan grigia e immaginavo chi fosse seduto al posto del passeggero...
Urlai a Simon di lasciar perdere, che la ragazza poteva anche rimettere sulla mia camicia e che dovevamo assolutamente filarcela. Sbiancai.
Sonia era crollata sul suo stesso vomito. Simon, totalmente irritato, non aspettò più. La lasciò a terra e salì in macchina, passando dalla prima alla terza in due nanosecondi.

"Ma che fai?!"
"Ce ne andiamo di filato, come hai detto tu."
"Ma, la ragazza... Fammi scendere!" nemmeno la polizia che era partita al nostro seguito e che sentivo sempre più lontana sarebbe riuscita a intervenire in tempo.
Mi puntò la pistola alla fronte: "Mike, chiudi il becco e fai il bravo. Non crearmi problemi, ho il grilletto facile."
Non ci pensai due volte: gli presi il polso e glielo storsi. Mi arrivò un pugno in faccia, che mi ruppe uno zigomo. Vidi nero per diversi secondi, quel tanto che bastò per lasciarci Sonia alle spalle, sola e indifesa.
Tentai di aprire la porta, con la vista ancora annebbiata e dovetti lasciare anche l'ultima speranza: Simon aveva chiuso con il comando. Di rompere il finestrino non se ne parlava. Non avevo più un briciolo di forza. Ero una pezza.
Con le lacrime che bruciavano sulle ciglia e la voce rauca che tremava, supplicai il mio carceriere: "Gira al prossimo incrocio e fammi scendere, ti prego."
"Non sono lo chauffeur di nessuno."
"Non puoi farmi questo."
"Anche sì. Dimmi, Mike, cos'è tutto questo attaccamento? Neanche fosse la tua ragazza... Aspetta, lo è?"

Non gli risposi, per lui sarebbe stato come continuare un gioco.
La mia protesta silenziosa continuò fino all'arrivo alla stazione di polizia. Le battute di Simon si erano trasformate in un sottofondo monotono, facendomi allontanare da tutto. Stavo pregando. Nella mia testa, nel mio cuore, nelle mie mani c'era una sola preghiera. Per Sonia e per me. Per me solo se avanzava un po' di aiuto, altrimenti lei aveva la precedenza assoluta.
A me, di me stesso, non interessava più nulla: avevo finalmente trovato un limbo di pace. 

La morte non era niente in confronto a ciò che avevo fatto a Sonia. Lei era corsa in mio aiuto, io l'avevo abbandonata sul ciglio della strada, sul suo vomito e con un proiettile piantato nella spalla; l'avevo lasciata nelle mani di chi le aveva sparato. Tutto quel rimorso si trasformò ben presto in emicrania e, infine, in apatia vigile.

Quell'isola "sedante" in cui ero naufragato fu scossa dalla mano gigante dell'investigatore: "Che fai adesso, mi prendi in giro? Alza quel sedere da lì e seguimi."
"Inutile darmi ordini se poi li esegui da solo, marmittone."

Simon mi aveva preso di peso e trascinato fuori dalla macchina. Con le sue nocche a stritolare il mio bavero, lo guardai con un occhio solo (quello buono) in quei suoi occhi aspri: "La vuoi piantare?"
"Perché mai? Correresti con la coda tra le gambe da lei."
"Un tempo. Adesso non ci penso più. È troppo tardi."
"Pare che ti sia entrato un po' di sale in zucca, eh." La presa si allentò e la sua mano tornò sopra al suo fianco.
"Quello che hai perso tu poco fa," gli sorrisi, beccandomi un destro sopra al plesso solare. Caddi sulle ginocchia, cercando di respirare. Non riuscendoci, mi era impossibile ritorcermi contro di lui e sfogarmi anche solo a parole. Si voltò, dirigendosi verso l'entrata: "Andiamo, calzetta. Dobbiamo salutare un po' di vecchie conoscenze e rispondere ai convenevoli."
Lo guardai senza trattenere una smorfia di disgusto.

"A pensarci bene, è meglio che il tuo profilo rimanga basso, al momento," si sfregò un principio di barba con pollice, indice e medio.
"Quanto basso?" ansimai.
"Steso," bisbigliò, sorprendendomi con un colpo dietro alla nuca che mi oscurò totalmente la visione del mondo.

Professionisti dell'azzardoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora