1. Una giornata qualunque e una visita insolita

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Un pomeriggio freddo e uggioso filtrava dalla grande vetrata del bar in cui mi trovavo. Sembrava che quel cielo grigio e tetro si fosse incollato ai cappotti dei clienti che, entrando nella sala calda e accogliente, non esitavano a scrollarsi di dosso quel senso di stanchezza e si accomodavano pigramente a uno dei tavolini, lasciandosi andare in preda al torpore.

Fu un attimo. L'uscio si spalancò con forza e una ragazza sui vent'anni entrò ansimante, portando con sé anche il vento gelido del vicolo.

La prima impressione che mi fece fu di stupore: non era la prima volta che una persona arrivava di corsa, specie se fuori il tempo era inclemente, ma poche si guardavano attorno con così tanta circospezione.

La giovane, appena mi vide, mi raggiunse al banco in pochi secondi con una velocità che non lasciava più dubbi riguardo alla causa del suo fiato corto.

Mentre tentava di accaparrarsi quanto più ossigeno poteva per riprendersi, la squadrai meglio. Aveva dei capelli così neri che credevo di scorgervi dei riflessi blu; la frangia ombreggiava degli occhi singolari, ambrati, e delle guance spruzzate di lentiggini.

"Desidera?" le domandai, per sciogliere il ghiaccio. Mi era necessario un po' di tempo per cercare di comprendere ciò che stava realmente accadendo, il motivo di tutta quella fretta.

"Bagno," tagliò corto, seccamente.
Non sarà mica una di quelle toccata e fuga? pregai, contemplando scoraggiato i pochi avventori del locale.

"In fondo, a sinistra," le indicai, girandomi verso l'ambita meta. Non mi ringraziò nemmeno.

Un signore anziano dal volto segnato da profonde rughe, vestito interamente di verde – ad eccezione di una sciarpa di un giallo chiaro talmente sbiadito da potersi tranquillamente definire bianco – si alzò per pagare il conto e, cercando un pretesto qualsiasi per non aprire subito il portafoglio, biascicò: "Senta giovanotto, ma lei conosce quella signorina che è appena entrata? Non l'ho mai vista da queste parti... Mi sembra una persona un po', come dire... poco perbene".

"No" risposi immediatamente. Me ne pentii subito.
In un paese piccolo come Denoir le notizie si diffondono in men che non si dica, passando di bocca in bocca. Qui tutti si conoscono, si nota subito se c'è qualcosa di strano...

Strano. Proprio come quel tipo che passeggiava da diversi minuti avanti e indietro sul marciapiede attiguo al bar...

Gesticolava e aveva l'aria irrequieta o forse il mio giudizio era stato troppo cauto e avrei dovuto pensare che l'uomo fosse furioso. Nella vaghezza di quell'istante e dell'ignoranza totale, compresi che dovevo fare una scelta.

Mi inventai una gran bella menzogna che non stava in piedi, ma che parve funzionare, e corressi così la prima risposta dopo pochi attimi: "No, cioè, volevo dire... non la conosco personalmente. Tra poco avremo un colloquio e, se andrà bene, la assumerò per qualche sera come pianista". Non so cosa mi spinse a mentire, tuttavia in quel momento mi sembrò la cosa più sensata da fare. Al pianoforte avrei pensato dopo.

Il mio interlocutore parve crederci fino a un certo punto. Rabbrividii. Speravo che nessuno avesse inteso lo scambio di parole che era avvenuto tra me e la ragazza. In fondo, non avevamo utilizzato un tono di voce elevato. Non che ci fossimo detti chissà che cosa, ma mi era venuta una certa paranoia...

Chi ho fatto entrare? Che cosa sta facendo in bagno? È passato un bel po' di tempo.  

Quando anche l'ultima signora uscì, dimentica di quella turbolenta apparizione che aveva scatenato in me uno stato angoscioso, tirai mezzo sospiro di sollievo. Non stavo esagerando, quella situazione mi aveva allertato fin troppo, pur avendone viste e passate tante. E intanto dell'uomo sospetto, coperto da un pesante impermeabile, coglievo vaghi e sempre meno frequenti riflessi da dietro la vetrata. Dall'ultima volta che l'avevo notato e che si era soffermato a scrutarmi morbosamente erano passati una ventina di minuti. Non capivo però che cosa mi irritasse così tanto da far passare in secondo piano la paura. Era come se rivedessi in lui una persona di mia conoscenza. Possibile? No, non poteva essere...

Mi decisi. Mettendomi con il dorso appoggiato al legno della porta, schiarii rumorosamente la voce: "Tutto bene?"

"Entra."
Iniziavo a temere le donne: comandano senza nemmeno conoscerti.

Per fortuna l'entrata era unica per il bagno degli uomini, delle donne e per quello del personale; in tal modo non potevano nascere sospetti da eventuali sguardi indagatori. Buffo come prestassi attenzione a ogni singola mossa, come se fossi complice di qualche orrendo crimine e mi sentissi osservato dal nemico. Chiusi la porta alle spalle e scrutai attentamente la ragazza, incrociando le braccia sul petto: "Allora?"
Esigevo una spiegazione, mi era dovuta.

Le sue labbra color ciliegia si incresparono in una smorfia di terrore, eppure la voce suonò decisa: "Non hai chiuso l'entrata, vero?"
"No".
Non capivo.
"Meno male, così lui non sospetterà più del dovuto".

Si avvicinò rapida e silenziosa, con un movimento sinuoso e selvaggio. Mi ricordava una lince pronta ad attaccare. "Devi nascondermi, non c'è più tempo... Adesso tu mi seguirai e farai finta di non vedermi."

Rimasi imbambolato mentre la osservavo strisciare per terra. Feci però come mi aveva chiesto. Aprii la porta per lasciarla passare, tenendola ferma con una mano e sbadigliai, mettendo l'altra dietro la nuca. Mi passai le dita tra i capelli il tempo necessario perché uscisse del tutto e per non sembrare uno sciocco nello stare fermo a tenere una porta aperta. I passanti, se passavano, erano sempre pronti a notare le stranezze. E quello non sarebbe stato il momento migliore per additarle e scherzarci su.

La ragazza continuò a strisciare lungo una traiettoria protetta dal bancone del bar, dietro cui si accucciò, invisibile dall'esterno. Essendo l'azione più naturale e insospettabile per un barista, mi posi accanto a lei e iniziai a sistemare le tazze e i bicchieri puliti sugli appositi ripiani. Nel frattempo lanciavo occhiate furtive alla strada. L'uomo con l'impermeabile era tornato. Qualcosa doveva pesargli nella tasca rigonfia.

"Ehm" esordii.
"Chiamami Sonia," mi assecondò con un'occhiata vacua e glaciale allo stesso tempo. Dovetti dedurre che quello non era il suo vero nome dal tono professionale con cui l'aveva pronunciato.
"Bene Sonia, mettiti qui". Senza guardarla e muovendo appena le labbra nel direzionarla, toccai con la punta del piede uno spazietto accanto al frigo abbastanza grande da farci entrare una persona accovacciata, a patto che fosse della statura e corporatura della giovane, che non doveva superare il metro e cinquantacinque ed era davvero magra. Di solito lì ci mettevo le cassette delle bottiglie d'acqua vuote.
Si posizionò dove le avevo mostrato in un battito di ciglia.

Fingendo di raccogliere qualcosa che non mi era realmente caduto, tirai la tendina che serviva a celare le cassette. Non avrei mai pensato di nascondere dietro a un rettangolo di stoffa a quadretti bianchi e rossi un essere umano.

Proprio quando finii i preparativi, l'uomo con l'impermeabile entrò.

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