È difficile parlare di sé.
Alcuni credono sia tra le cose più semplici al mondo, come applaudire o salutare...
Mai provato a salutare una persona con cui si è in pessimi rapporti?
Non è facile nemmeno salutare.
Ci vuole tempo, il giusto tempo. Ed io riesco a parlare di me solo ora, dopo che ho fatto passare forse troppo tempo.
Ho aspettato a lungo, ho pazientato, mi sono ripetuta ogni giorno frasi prestampate sui buoni risultati della perseveranza. Non è servito a nulla.
La prima persona con cui sono stata capace di aprirmi è stata la prof di psicologia del liceo.
Alla ricreazione, dopo che tutta la classe era uscita, sono andata da lei. Le ho chiesto se aveva un minuto per parlarmi, perché mi serviva il parere di un adulto. Poi sono scoppiata in lacrime crollando sulle ginocchia.
Sono riuscita a dirle solo: "i miei genitori vogliono separarsi" e ho continuato a piangere.
Da quel momento il mondo di bellezza e fiducia che ogni ragazza si costruisce era scomparso.
Pronunciare quelle parole aveva reso tutto vero. Lo era già prima, era vero; solo che io mi ostinavo a credere che ci sarebbe stata una soluzione.
Prima di quel giorno avevo aspettato che la tensione nella mia famiglia si allentasse per sette anni.
Poi, davanti alla prof di psicologia, avevo preso coscienza che nulla sarebbe andato bene, nulla come speravo.
In realtà la mia battaglia era appena iniziata e i mesi che seguirono quel giorno al liceo furono terribili.
Scappavo dalla finestra del bagno per paura di stare dentro casa; frequentavo compagnie di persone intelligenti e molto riflessive, le cui riflessioni erano forse ispirate da qualche sostanza con cui non volevo avere a che fare. Avevo preso cuscino e coperta e mi ero sistemata in macchina, sebbene la mattina le ginocchia erano tutte indolenzite, e da allora la mia macchina era diventata la "casa-car", il che dice tutto.
Dentro casa si parlava esclusivamente di avvocati.
O meglio: mamma parlava di avvocati e metteva dichiarazioni per iscritto, ricordandomi in ogni occasione che dovevo firmarle pure io. Dall'altra parte papà non diceva nulla. Stava seduto sul divano la maggior parte della giornata, dormendo o fissando il vuoto, col naso rosso dopo nemmeno un bicchiere di vino.
Un solo bicchiere poteva scatenare diverse reazioni: dagli scatti d'ira al suo scomparire per ore senza lasciare traccia. Un solo bicchiere...dall'armadio sparivano intere bottiglie di liquore e ricomparivano vuote qualche tempo dopo, in posti diversi della casa. Non parliamo poi della birra: non ho mai iniziato a contare le lattine: mi sarei persa dopo solo un giorno.
In mezzo a tutto questo io vedevo, mi nascondevo, fuggivo, e speravo.
Ho confidato molto nei miei genitori, sperando che trovassero il modo di sistemare le cose.
Avevo un ricordo stupendo della mia famiglia: persone allegre, come molti altri, che condividevano un percorso di vita.
Ho confidato che avrebbero superato una piccola difficoltà.
Tuttavia per superare le avversità dovevano essere in due...in realtà tutti e due avevano gettato la spugna. Si erano arresi.
Così papà passava le sue giornate nello stato di trans e mamma piangeva e si arrabbiava per ogni cosa perché non sapeva come sfogarsi.
In quei giorni ho perso completamente il mio rapporto di figlia.
Ho iniziato presto a sentirmi madre dei mei genitori, badante...tutto tranne che la figlia. Perché non potevo esprimere il mio pensiero senza essere zittita come una bambinetta ingenua.
Ho iniziato davvero a sentirmi ingenua per aver avuto fiducia in loro.
Sono sempre stata circondata da amici, persone che mi reputano in gamba, sveglia e piena di grinta. Potrei azzardare a dire che qualcuno addirittura mi ammira.
Ma per anni mi sono vergognata a parlare di quel che accadeva in casa.
Un po' perché ciascuno aveva i suoi pensieri, un po' perché se azzardavo il discorso venivo subito minimizzata e criticata per la conversazione.
La prima persona amica con cui ne ho parlato è stato Michelino, una sera in cui la situazione era degenerata.
Dopo l'ennesima discussione – nondiscussione, mamma aveva fatto le valige e papà restava seduto a tavola a fissare il vuoto. Avevo pensato che mamma sarebbe andata via davvero; non le solite minacce. Le minacce vere, questa volta, erano quelle di papà.
Io stavo pulendo i piatti e non ho resistito più: avevo sbattuto la padella sul lavello e volevo andarmene via anche io. Non sapevo dove: volevo solo non stare lì.
Papà mi aveva raggiunto dicendomi di scegliere: volevo mandare via di casa lui oppure la mamma?
Non ricordo cosa dissi.
So che piansi, a lungo. Avevo aspettato che in corridoio non ci fosse nessuno ed ero corsa in garage, avevo preso la macchina ed ero andata da Michelino.
Piansi anche da lui e raccontandogli tutto.
Grazie a Michelino avevo trovato un po' di forza e, con lui vicino, avevo raccontato la storia anche a Lucia. Premurosa nei miei confronti, Lucia mi aveva accompagnato nel mio tentare una strategia: parlare con alcuni medici ed esperti.
Ho perso il conto dei medici con cui ho parlato nel tempo.
Cercavo una strategia, un modo per approcciarmi a loro e fargli vedere cosa stavano combinando...non ho ottenuto nulla.
Mamma intanto non era andata via.
Aveva scelto di continuare a spegnersi dentro le mura di casa. In realtà era poco dentro casa: si teneva occupata ore e ore sul lavoro o si prendeva cura dei parenti anziani. Non era in grado di prendersi cura di sé e così aveva spostato le sue energie sugli altri.
Una sera ero tornata a casa tardi (come al solito) e mamma stava male.
Avevo insistito per portarla in ospedale. Lei mi disse cose orribili pur di non andarci.
Io corsi da Michelino e rimasi con lui.
Avevo paura e stavo male.
Non vedevo un via d'uscita dalla situazione disperata.
Iniziai ad avere paura di addormentarmi: sognavo di vedere i miei amici bere, perdere il controllo e farsi del male. Mi svegliavo e capivo che erano incubi.
Abbandonai alcune compagnie ma impiegai molto tempo prima di restare seduta accanto ai miei amici mentre si concedevano una birra e quattro risate.
Oramai avevo paura di tutto.
Avevo iniziato a costruirmi una corazza attorno: mi presentavo come una tipa tosta e spavalda, a volte un po' romantica e fessacchiotta a cui piaceva sognare, ma che quando combatteva metteva l'avversario al tappeto.
Dovevo essere così.
Dovevo non avere dubbi sul da farsi: diploma, laurea, lavoro, matrimonio e via di casa.
Soprattutto via di casa!
Quest'immagine di me si era solidificata ogni giorno, lasciandomi poche persone con cui mi sentivo libera di essere completamente umana, ovvero fragile.
Per quasi quattro anni, non piansi più.
Nessuno doveva vedere le mie lacrime. Nessuno doveva vedermi fragile. Io non dovevo crollare.
Se mi fossi mostrata debole, se avessi rivelato di essere anche io umana e non una supereroina indistruttibile, cosa sarebbe successo?
Di certo, nulla di buono.
Ammetto, però, che alle volte mi piaceva fermarmi a ricordare i miei sogni.
Tutti hanno dei sogni che, da bambini o da ragazzi, ci accompagnano, e alle volte speriamo di poterli realizzare anche da adulti. Io sognavo tre cose: una famiglia mia; andare in Brasile; diventare scrittrice.
Sono una giocatrice di capoeira, il che ha fatto nascere e rafforzato il desiderio di andare in Brasile. Il Mestre brasiliano mi aveva chiesto più volte di andare con lui: dovevo dargli un anno delle mia vita che avrei passato a Salvador do Bahia, allenandomi ogni giorno. Avevo molte possibilità nel mondo della capoeira.
Avevo rifiutato.
Avevo troppa paura di cosa sarebbe successo se mi fossi allontanata per ben un anno da casa.
Dopo il malessere, mamma aveva fatto delle analisi: un attacco di ischemia, aveva detto. Dal risultato il suo cervello aveva più buchi di un groviera.
Nascose quelle analisi.
Di lì a poco ho perso un caro amico.
La sua assenza ha aperto una ferita che mi ha segnata a lungo. Al contempo ha fatto insorgere in me tutte le domande che, per paura, avevo allontanato dal mio cuore, riconducibili ad una in particolare: perché?
Autori, poeti, pensatori...nessuno riusciva a spiegarmelo.
Frasi fatte, le loro, senza aderenza con l'ingiustizia che vivevo. Chi si merita tanto dolore? Chi può affrontare tanto dolore? Di certo non io. Io non ci riuscivo.
Io non ero più io, non ero più umana perché non amavo più e non piangevo più.
Non volevo più piangere.
Su quale esempio mi sarei formata una famiglia mia?
Dentro questo turbine di smarrimento dimenticai cosa significa essere famiglia, cosa significa essere a casa. Ho pensato tante volte che non volevo sposarmi e avere dei figli: che esempio gli avrei dato? Quale madre sarei stata?
Io non ricordavo come deve essere una buona famiglia.
I sogni erano ricordi su cui mi soffermavo poco: non possono avverarsi, consapevolezza che fa ancora più male.
Sono caduta nell'attivismo: fare mille cose, correre da una parte all'altra senza tregua, al solo scopo di non pensare, di arrivare a casa abbastanza tardi la notte da non vedere i miei genitori in faccia per non soffrire. Essere abbastanza stanca da crollare a letto e non sognare grazie al sonnifero.
...Questa non è vita.
Queste non sono vite.
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Amore Abbandonato
SpiritualQualcuno dice che esiste un disegno per le vite di ciascuno di noi. Io ero convinta che il mio disegno avesse avuto un incidente di percorso. Ad esempio, una tazza di caffè rovesciataci sopra che ha sbavato tutto. E il disegno è da buttare. Non avev...