Da Alexis a 12, come tutto cambiò

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Era una giornata come le altre, mi svegliai stiracchiandomi. Il sole faceva capolino e le fronde degli alberi si muovevano in una danza quasi ipnotizzante. Lasciai il mio amato pigiama sul letto e mi feci una doccia calda. Colazione a base di latte e biscotti, mia madre adorava farli, sapeva che mi piacevano al cioccolato fondente. I miei due minuti di strada ed ero già a scuola. Nell'ingresso vicino alle macchinette le mie amiche mi aspettavano, certo erano poche quel giorno ma non così poche da farmi preoccupare per qualcosa. "Ciao a tutte!"-salutai-"Dove sono Tania, Cristina e Jennifer?". "Sono via per il week-end, fuori città, è stata una sorpresa un po' per tutte" rispose una di loro. La solita campanella squillò ed entrammo in classe. Ero incredula dalla quantità di banchi vuoti. La storiella dei telegiornali su un grosso focolare di influenza aviaria aveva gettato molti nella paranoia. Dopo le solite cinque ore tornai a casa, pensando solo a indossare ancora una volta il pigiama e a rannicchiarmi nel letto caldo e confortevole.

Guardai l'orologio, segnava mezzogiorno e il cielo si fece un po' più nuvoloso. Nella tromba delle scale del condominio un gran via vai di valigie ostacolava il mio passaggio. Non capivo cosa stesse succedendo, l'angoscia iniziava a toccare i miei pensieri. Scacciai via tutto dalla mia testa e continuai a salire fino al nostro appartamento. Un salotto arredato ma senza troppe chincaglierie, il televisore sempre acceso, la cucina modesta ma con un frigo capiente e dall'altra parte le due camere da letto e un bagno. Come al solito da un paio di giorni il nostro televisore strillava le ultime notizie del telegiornale, che raccomandavano il controllo da un medico per evitare la diffusione della malattia e nel caso di sintomi come quelli elencati, di portare direttamente all'ospedale in città l'ammalato, che sarebbe stato curato in seguito. Inoltre un'esodo era in corso da ore a nord della periferia, alimentando il tumulto generale. Scagliai lo zaino sul divano e mi diressi in cucina a pranzare. "Allora oggi cosa si mangia?" chiesi, mamma rispose:"oggi risotto con speck e brie". Io annuii e aggiunsi:"Spero sia più buono del pasticcio di carne della scorsa volta." Tra di noi la competizione era di casa e si sentiva. "Mangia veloce e fai i compiti, oggi hai allenamento". Mi ritirai in camera mia con un "sì certo, come sempre" per poi chiudere la porta. In meno di dieci secondi ero già in pigiama nel letto e con i quaderni aperti. Con la musica nelle orecchie i problemi di matematica li macinavo con semplicità. Dopo matematica seguì scienze e prima di cominciare fisica, pausa messaggi e patatine alla paprika. Tra un messaggio e l'altro mi accorsi di quanto fosse rauca la voce di mia mamma oggi in cucina, Il solito raffreddore stagionale la stava assediando. Dopo l'ultima pagina di fisica, finalmente posai i libri e mi dedicai ai racconti, quelli belli. Preso possesso del Tablet e della connessione internet, tornai sul blog di racconti romantici e affini. Erano così pieni di passione ed emozioni che quasi mi veniva voglia di scrivere un mio libro. Ma dopo aver pensato per l'ennesima volta a quello stramaledetto professore che mi inflisse un 5 per essere andata fuori tema in tre righe, tornai al presente. 

Mentre aspettavo mio papà, andai a vedere come stava mia mamma in salotto. Il notiziario locale, seguito da lei con molta passione, ci avvertiva di vari fermi a discapito di gruppetti di writers che stavano marchiando i muri della città con una filastrocca un po' lugubre. "Con tutti quei soldi che ha speso la gente per costruirsi una casa e tenerla pulita, arrivano loro e imbrattano senza vergogna. Roba da sedia elettrica", borbottava mia mamma tra un colpo di tosse e l'altro. Sembrava più pallida e accanto a lei decine di fazzoletti usati sancivano l'inizio della stagione del raffreddore. Conoscevo un ragazzo che faceva murales, era carino ma troppo noioso, non faceva altro che parlare di arte e apocalisse.

Ormai erano dieci alle sei, il sole mi salutò con il suo ultimo raggio e tante luci affollarono case e strade. Presi la borsa e il giubbino, mio papà era lì fuori in auto, in anticipo. La coda del rientro dal lavoro non esisteva più? Continuavo a non capire. Un'allenamento di pallavolo come tutti gli altri: riscaldamento, stretching e breve partita, il tutto veniva seguito dall'occhio attento del nostro allenatore e da quello meno attento del nuovo vice. Era un po' tra le nuvole ma simpatico. Dopo essere tornate negli spogliatoi, il suono di tante sirene della polizia di passaggio, mi stava rendendo inquieta. Finito allenamento, il sole aveva lasciato il posto ai lampioni della strada. Uscii dalla palestra ad aspettare mio papà con un gruppetto di mie amiche. Una dopo l'altra furono accompagnate a casa e rimasi lì da sola come un'idiota. Dopo 20 minuti di ritardo, stavo per tornare a casa a piedi quando dai parcheggi uscì un uomo sulla cinquantina, sporco di un liquido scuro, pareva inchiostro, che camminava nella mia direzione. Non ci feci molto caso, ma da destra del parcheggio un'auto si fiondò verso di me, inchiodando prima di tirarmi sotto. Uscì mio papà con un'aria frastornata e i capelli scompigliati, urlandomi:"Sali in macchina, veloce!" Terrorizzata salii sull'auto che si allontanò sgommando sull'asfalto. prima di uscire dal cancello giurerei di aver visto quell'uomo nella penombra senza un braccio. 

A tutta velocità superammo la zona industriale e raggiungemmo il piccolo pezzo di statale per entrare in città. la corsia opposta era affollata e la gente suonava all'impazzata. Ormai ero nel panico: prima i miei compagni di classe, poi il mio condominio e infine il mio intero quartiere? Cosa stava succedendo in questa stramaledetta città?! L'auto iniziò a rallentare e ci trovammo davanti un posto di blocco, che rendeva ancora più inquietante la gigantesca recinzione montata in una sera, attorno al centro città. I poliziotti ci chiesero di scendere dalla vettura e di metterci in ginocchio. Iniziai a piangere ma mio papà mi disse dolcemente:"Alexis, guardami. Ti prego guardami, andrà tutto bene. Non c'è tempo per spiegarti ma ti racconterò tutto" mi abbracciò e scendemmo dall'auto. Il mio cuore batteva all'impazzata quando uno degli agenti si avvicinò verso di me con una mano già sulla fondina, si inginocchiò e accese una piccola torcia dicendomi:"Segui la luce ragazzina" gli occhi seguirono i gesti della torcia, si limitarono a dirci che eravamo ok e di procedere. Risalii sull'auto e mentre mio papà ripartiva, lessi su un muro vicino una macabra filastrocca:

"Sono io la morte e porto corona, e son di tutti voi signora e padrona 

e così sono crudele, così forte sono e dura

che non mi fermeranno le tue mura.

Sono io la morte e porto corona, io son di tutti voi signora e padrona

e davanti alla mia falce il capo tu dovrai chinare 

e dell'oscura morte al passo andare."

Arrivati a casa e superato l'ormai deserto corridoio, mio padre disse solo:"Prepariamoci una valigia a testa, andiamo dalla nonna. "E la mamma?" chiesi preoccupata, rispose:"E' già lì, fai veloce!". Ma fu nel prendere l'ultima valigia per quel viaggio senza apparente senso che dalla camera dei miei, un rumore metallico attirò la mia attenzione, avvicinai l'orecchio alla porta e mugolii sommessi mi convinsero ad entrare. Prima di varcare quella soglia guardai mio padre, intento a raccogliere alla rinfusa le sue cose. Sbloccai la serratura e aprii la porta, ma nulla mi avrebbe preparato a quell'incontro. Sapevo per certo che la mia vita finì, in quel momento, in quella stanza buia e disordinata, quella sera. Non sapevo perché fosse capitato a me, avevo per caso fatto qualcosa di sbagliato? Così terribile da pensare di aver sbagliato a rimanere in vita? Così terribile da aver subito l'ira di Dio? Mi domandai anche se poteva esistere davvero un dio capace di creare cose così... così schifose? Queste furono i miei ultimi pensieri, quando mia madre, o quello che rimaneva di lei cercò di scagliarsi contro di me. Dal buio caotico della sua stanza una bestia dalla pelle bianca come il latte, con due biglie opache lacrimanti inchiostro e un rivoltante sorriso bluastro luminescente, mi attaccò. Ero ancora pietrificata quando mi balzò addosso, mi mise spalle a terra e cercò di cancellarmi dalla faccia di un mondo in cui non volevo più vivere, non senza mia mamma. La fortuna volle che mio papà colpisse quel mostro prima che mi sbranasse  viva. Ero a terra, con le orecchie che mi fischiavano e sentivo un'alone caldo sulla mia testa, ma ero ancora lì, senza parole e senza voglia di reagire. Sentivo mio papà ancora lì che mi chiedeva scusa mentre tamponava con degli asciugamani il sangue che usciva dalla mia testa. Chiese scusa per non aver messo fine alle sofferenze di mia madre subito. Mi ripresi un po' dopo aver bevuto dell'acqua con lo zucchero. Prese le nostre valigie e superata la porta del condominio ci ritrovammo in strada. Le palazzine attorno a noi erano imbrattate tutte con quella filastrocca macabra, ero disperata ma il peggio doveva ancora venire. Una dozzina di quelle belve che strascicavano i piedi ci venne in contro da tutte le direzioni. Ma un gruppo di uomini armati ruppe quel cerchio mortale, tagliando e rompendo articolazioni di mostri. Quando massacrarono tutte quelle bestie una delle cinque figure, si tolse il cappuccio e disse sorridendo:"Se non volete farvi strappare gli arti ancora da vivi, questa è la via di fuga". Senza pesarci li seguimmo tra una via secondaria e l'altra raggiungendo il dormitorio. Non chiusi occhio quella notte.

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