Non sono un autolesionista.
Non lo sono. Lo sono stata, forse. Per un breve periodo. E non era una cosa seria.
Non lo sono. Ma mi ci sento.Come fai a dire una cosa del genere? Non puoi sapere come ci si sente.
Ci si sente come se la lametta fosse la soluzione a tutto. Ci si sente bene quando il sangue affiora alla pelle, ma ci si sente di merda quando lo si pulisce e si abbassa la manica della felpa. E non ci si fa male solo quando si preme la lametta sulla pelle; ogni volta che la stoffa tira sul taglio, che si struscia contro un muro, che l'acqua calda ci scorre addosso sotto la doccia. Ogni azione che facciamo ci ricorda che siamo in battaglia, contro qualcosa dentro di noi. Contro di noi.
E si ha paura. Si ha paura quando ci si cambia, quando ci si lava. Si ha paura di essere scoperti. E si soffre il caldo d'estate.Ma non è solo questo. Questo è quello che possono sapere tutti.
Io non sono autolesionista, tanto per dirne una, ho una fottuta paura del dolore fisico: chiederei l'anestesia anche per le analisi del sangue.
Eppure ho delle sottili liniette bianche come cicatrici. Eppure conservo gelosamente un taglierino sotto al cuscino e lo porto con me in ogni viaggio o spostamento che duri una notte: dormire a casa di un'amica, per esempio.
Alcune volte, certe notti, mi basta allungare la mano sotto il cuscino e stringere il taglierino fra le dita, sentendo che per qualsiasi cosa lui è lì, pronto ad aspettarmi. Mi basta sapere che c'è una via di fuga, un'alternativa. Di solito, dopo qualche minuto e un sorriso amaro, lo lascio andare e mi rimetto a dormire.Ci sono periodi che non lo penso proprio. Settimane addirittura, senza che la mia testa vaghi in cerca di quella porta d'emergenza. Poi lo vedo per caso sotto il cuscino, scuoto la testa e scaccio via l'immagine.
È come quando una vecchia foto da buttare è in un album sulla mensola troppo alta, e tu non hai voglia di prendere la scala.Ma la gran maggioranza dei giorni, quel taglierino è un'immagine che persiste nella mia testa; di piccole dimensioni, almeno una volta al giorno attira la mia completa attenzione, per poi restare sullo sfondo del collage con gli altri miei pensieri abitudinari. Non ho bisogno di usarlo, spesso neanche di stringerlo. Mi basta sapere che è lì, e potrei usarlo quando voglio.
E poi, ci sono le volte che lo uso.
C'è stata la prima volta, ed è stata per il vuoto. L'insofferenza. Niente mi toccava e sentivo dentro, nel posto dove si provano le emozioni, solo uno spesso strato di polvere e ragnatele. Era insopportabile.
Mi avevano detto che quello ti faceva star male. Io volevo provare qualcosa, fosse stato anche il dolore. Così ho iniziato.
Ma non ne avevo il coraggio, non sapevo nemmeno come fare. Usai un coltello da cucina, di quelli seghettati. Riuscii a farmi solo un lungho taglio appena insanguinato sul dorso della mano.
Capii che il seghettato non andava bene, così comprai i taglierini. Funzionavano che era una bellezza.
Non potevo usare il braccio però, io sono calorosa e vedermi a maniche lunghe sarebbe stato sospetto: in quel periodo praticamente tutti si tagliavano, era la moda del momento. Non potevo rischiare.
Cercai le zone nascoste dove poterlo fare, alla fine decisi per le spalle. Erano coperte, e faceva più male quando mettevo lo zaino in spalla che quando mi tagliavo. Proprio quello che cercavo.
Ma non fraintendete, facevo quattro, massimo cinque tagli a sera. Guardavo il taglierino scorrermi sulla pelle con le mani sudate, poi guardavo la fessura finché non si tingeva fi rosso, picchiettavo con un fazzoletto e ne facevo un altro. Poi smisi di usare anche il fazzoletto.
Funzionò: riniziai a piangere, e a stare male. Continuai, perché se stare male dentro era un segno di debolezza, sopportare il dolore dei tagli oltre a quello nel cuore senza lamentarsi era forza, coraggio. Dopo circa un mese, il dolore dentro era diventato davvero ingestibile, così chiusi il taglierino nel cassetto e mi crogiolai nel pianto e negli spasmi, quel dolore era dieci volte più forte di quello dei tagli, che ormai erano diventati quasi insignificanti nella mia testa.
Ci furono altre occasioni, nel corso del tempo, per le quali mi feci un taglio o due: quando mi sentivo troppo in colpa e dovevo punirmi; quando, dopo un po' di tempo, quel dolore straziante che avevo dentro non si liberava solo la sera nella mia stanza ma lo faceva a pranzo, o con gente presente. Dicevo di andare in bagno, mi facevo un taglio, pulivo il sangue e tornavo dagli altri. Era come ingoiare una pillola di calmante.
Un paio di volte lo feci perché, dopo quasi un anno dalla prima volta, non riuscivo più a piangere. Meglio, piangevo ma non con quello stesso dolore dentro. Un dolore troppo lieve. Un dolore che iniziava inesorabilmente a perdersi nel vuoto.
Non ne sono dipendente, non ho mai avuto le braccia o le gambe coperte di tagli come nelle foto, i tagli non sono mai stati tanto profondi da sanguinare incontrollati. Uno solo, una volta, forse.
Non sono un' autolesionista, non sono dipendente dalla lametta. È solo uno strumento che uso per sfuggire ad un vuoto inferno, ogni tanto.
Natal's
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Diario(?) di un'adolescente
RandomQui scriverò in modi diversi di cose diverse (principalmente adolescenza, depressione e tematiche lgbt+). Mi lamenterò e condividerò con voi i miei pensieri e le mie esperienze, oppure metterò insieme delle parole cercando di creare un'immagine. Nat...