CAPITOLO QUATTRO

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<<Ania?>> borbottò stupito.
Lui era sorpreso. Io ero completamente pietrificata. Sentire il mio nome pronunciato da lui, l’affetto che traspariva dai suoi occhi, la familiarità che ne seguiva… era troppo. Mi vennero in mente tutte le volte in cui l’aveva detto con dolcezza, nei momenti intimi; quelli dove bisbigliare i nostri nomi era l’unica cosa concessa, o perlomeno l’unica cosa sensata che riuscivamo a dire. Mi abbandonai per un momento a quei ricordi, tanto che cominciai a respirare velocemente, come se fossi stata in apnea fino all’estremo e finalmente avevo la mia dose di ossigeno a lungo negata. Questo finché quei ricordi non vennero sostituiti dai seguenti tre anni di solitudine, tristezza, dolore e rabbia. E fu proprio quest’ultima a destarmi, a darmi la forza di reagire: mentre lui ancora mi scrutava con apprensione, mi voltai velocemente – al punto che barcollai e mi fu anche difficile ritrovare l’equilibrio – e finalmente mi avviai verso la macchina. Il mio unico obiettivo diventò quello di chiudermi dentro per fuggire da quello sguardo – e il proprietario di quello sguardo – che mi aveva tanto destabilizzato.
<<Ania>> gridò Angelo, e anche se non potevo vederlo, sapevo che mi stava seguendo.
Non andava bene. Non andava per niente bene.
Accelerai il passo, sperando con tutta me stessa che non riuscisse a raggiungermi, ma a pochi passi dalla macchina, una mano calda e grande afferrò il mio polso. Una mano che conoscevo fin troppo bene e che non avrebbe dovuto farmi tremare tutto il corpo come in realtà fece.
<<Lasciami>> riuscii a dire senza voltarmi, ma la mia voce risultò così patetica e flebile che non avrebbe intimorito neppure un bambino; e mi odiai in quel momento.
<<Ania>> ripeté lui. Sembrava non sapesse dire altro; e odiai anche quello. <<Per favore, voglio solo… salutarti.>> Più che un’affermazione sembrava una domanda, il che era comprensibile visto che io non ebbi neppure la forza di guardarlo.
Una cosa era certa: lui riusciva a dire solo “Ania”, io non riuscivo a dire niente. Provai più e più volte a rispondergli, ma fu del tutto inutile. Così, quando allentò un po’ la mano che mi teneva prigioniera lì, mi liberai con uno strattone e in un lampo mi chiusi in macchina, mettendo persino le sicure.
Mi tremavano le mani così come mi tremavano le gambe, ma in qualche modo riuscii a metterle in moto per allontanarmi da quel passato che avevo tanto faticato a rendere tale.
Angelo non si mosse da lì, continuò a guardarmi per tutto il tempo finché non fui troppo lontana per potermi ancora osservare.
Vagai senza meta per un tempo che sembrò infinito. Non sapevo che ora fosse o dove fossi diretta. La mia testa era un groviglio di ricordi e immagini che volevo tenere lontani, ma diventa piuttosto difficile tenere lontano il passato se dopo tanto tempo, ritorna prepotentemente nel tuo presente.
Il mio cellulare squillava senza sosta da un bel po’, e solo in un secondo momento ricordai che stavo chiamando Asia quando mi ritrovai davanti Angelo.
Quando squillò di nuovo, risposi con tono piatto senza neanche guardare chi fosse.
<<Ania, stai bene?>>
La voce di Asia mi arrivò agitata e preoccupata.
<<Sì>> farfugliai. <<Sì, sto bene.>>
<<Mi spieghi cos’è successo? Ho risposto alla tua chiamata e non hai detto una sola parola. Pensavo fosse successo qualcosa. E perché diamine ci hai messo così tanto prima di richiamarmi?>>
In quel momento la sua voce si fece dura, e non potei biasimarla per questo.
<<Scusa, ho incontrato una persona e mi sono dimenticata di richiamarti. Dove sei? Pranziamo ancora insieme, vero?>>
<<Ania, ma hai visto che ore sono? La pausa pranzo è finita da un pezzo. Io sono già all’Elite Project, dove dovresti essere anche tu.>>
Sbarrai gli occhi perché se la pausa pranzo era già finita, allora erano sicuramente le due passate. E io ero uscita dal ristorante di Alphonse Legrand alle dodici, il che voleva dire che ero in giro da due ore.
Guardai l’ora sul quadro della macchina e sbarrai ancora di più gli occhi quando appurai che in realtà ero in giro da ben tre ore.
Tre ore!
In un momento di lucidità, pensai che se Domenico avesse scoperto che non ero china a lavorare sulla mia scrivania, quella volta sarebbero stati guai seri.
<<Dimmi che Domenico non si è accorto che manco.>>
<<Per il momento no. Ma ti conviene muoverti. Non starà in eterno chiuso nel suo ufficio.>>
<<Arrivo subito>> risposi. Ma poi mi resi conto che ero arrivata nei pressi di Sesto Fiorentino e che arrivare subito era solo un’utopia.
Infatti mi presentai al lavoro quasi un’ora dopo. Mi sedetti sulla sedia con ancora il fiatone per le scale che avevo fatto di corsa – ovviamente, con la fortuna che avevo, l’ascensore era occupato – e non ebbi neppure il tempo di riprendere fiato prima di vedere spuntare Asia tutta preoccupata.
<<Ce l’hai fatta finalmente. Domenico mi ha detto di dirti di andare subito da lui. Mi dispiace, ma non ho potuto fare niente per nascondergli che non eri qui>> si giustificò facendo spallucce.
Appoggiai la testa sulla sedia e fissai il soffitto, preparandomi psicologicamente alla sfuriata che mi aspettava a breve.
<<Mi dispiace davvero>> ripeté lei.
<<Non è colpa tua, Asia. Tranquilla>> la rassicurai, perché non era davvero colpa sua. Semmai il responsabile era un uomo di un metro e novantadue, con bellissimi capelli lunghi biondi e due pozze azzurre nelle quali specchiarsi.
E quel pensiero era del tutto inappropriato.
Chiusi gli occhi e scossi la testa più volte per togliermi dalla mente l’immagine di Angelo, ma purtroppo non mi abbandonò per tutta la giornata, neppure quando fui costretta a sorbirmi la ramanzina del mio capo.
Quella sera dovetti recuperare le due ore perse – come aveva deciso Domenico – e perciò rimasi al lavoro fino alle sette.
Non tornai a casa quando finii di lavorare, andai dall’unica persona che avevo bisogno di vedere, l’unica che poteva aiutarmi a lasciarmi alle spalle quella brutta giornata.
Quando la porta si aprì, non c’era sorpresa dipinta sul suo volto; come se si aspettasse di vedermi lì. Mi fiondai nel suo abbraccio e rimasi in quella posizione finché non fui abbastanza calma per staccarmi.
Ana chiuse la porta quando la superai per entrare in cucina e aprire il frigo in cerca di una bottiglia di vino. Presi due bicchieri e ne passai uno a mia sorella, bevendo il mio tutto d’un fiato.
<<Devo dirti una cosa>> bisbigliai con lo sguardo fisso sul bicchiere.
<<È tornato Angelo>> continuò Ana.
Alzai la testa di scatto e la guardai con gli occhi sbarrati. Come faceva a saperlo?
<<L’ho visto oggi>> andò avanti come se mi avesse letto nel pensiero. <<Come stai?>>
<<Male>> ammisi.
Perché era vero.
Perché non avevo segreti con mia sorella.
Perché era stupido mentire quando avevo stampato in faccia la verità.
E perché avevo bisogno di dirlo ad alta voce.
Mi versai un altro bicchiere di vino che questa volta bevvi lentamente. Dopo la mia ammissione non riuscivo più a guardare Ana negli occhi.
<<Dove vi siete visti?>>
<<L’ho incontrato davanti al ristorante che sto arredando. È stato… strano. Era l’ultima persona che pensavo di incontrare. E…>>
<<E ti ha fatto effetto>> concluse per me.
Mi dovetti mordere il labbro per non rispondere di getto; non mi sarebbe piaciuta quella risposta.
<<Non è questo. Ana… è pur sempre Angelo. Me lo sono ritrovato lì dopo tre anni che non lo vedo e non lo sento. Mi ha sorpreso.>> In quel momento squillò il mio cellulare. Ne avevo abbastanza di sentire quella stupida suoneria, stavo cominciando a odiarla.
Presi il telefono dalla borsa e risposi a Massimo, anche se probabilmente era il momento meno opportuno per parlare con lui.
<<Ehi.>>
<<Tesoro, ceniamo insieme stasera?>>
Ancora non gli avevo mentito e già mi sentivo in colpa, perché stavo per farlo. <<Mi piacerebbe, ma sono a cena da Ana. Dormo da lei stasera. Sai, ho bevuto un po’ ed è meglio che non mi metta a guidare.>>
<<Ah, va bene. Ci vediamo domani?>>
<<Certo. A cena da me.>>
Lo salutai frettolosamente e tirai un sospiro di sollievo quando riattaccai. Mi sentivo malissimo a mentirgli, ma non avevo altra scelta. Non potevo vederlo quella sera, non con quello stato d’animo.
<<E così cominciano le bugie>> canzonò mia sorella, accrescendo il mio senso di colpa.
Incrociai finalmente il suo sguardo, ma non ci vidi delusione come mi aspettavo. Più che altro mi guardava con comprensione. Volevo piangere finché tutta la tensione non avesse abbandonato il mio corpo, ma mi trattenni.
<<Solo una bugia. Solo una e a fin di bene.>>
<<Gli dirai di Angelo?>> mi chiese, mandandomi ancora più in crisi. Quella giornata sarebbe finita, prima o poi.
<<Certo. Gliene parlerò domani. Farò in modo che non sembri una cosa grave.>>
Venne a sedersi vicino a me, sorseggiando il suo vino lentamente. <<E in realtà è una cosa grave?>>
<<No>> dissi subito. <<No, non lo è.>>
Quella notte non riuscii a prendere sonno facilmente. Sebbene sapessi quanto fosse sbagliato, non riuscivo a fare a meno di pensare ad Angelo. Non riuscivo a smettere di pensare a come sarebbe stata la nostra vita se lui non fosse andato via. Probabilmente saremmo stati già sposati, forse a quel punto avremmo avuto anche un figlio; o magari due. Volevamo una famiglia numerosa e progettavamo di avere il primo dopo un anno di matrimonio.
E per la seconda volta in quella giornata, pensai che quei pensieri fossero del tutto inappropriati.

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