2. Feeling like a house, but not a home

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Il contatto delle ruote dell'aereo sull'asfalto mi distolse dai miei pensieri. Ero arrivato a casa.

- Scusa! Giovanotto! Non è che daresti una mano a una povera vecchia, caro? Ho le caviglie gonfie e proprio non riesco a tirare giù il trolley dall'affare, quello qua in alto... Me lo fai questo favore? È quello color corallo non ti puoi sbagliare -

Annuì e ancora un po' indolenzito porsi il bagaglio arancione alla signora. Era una donna sulla settantina, troppo elegante per viaggiare in economy, con i capelli bianchi perfettamente acconciati in una crocchia dalla quale non era sfuggita neanche una ciocca.

- Bravo ragazzo! Ecco a te, per sdebitarmi -

Tirò fuori dalla borsetta una scatolina di latta rossa il cui contenuto tintinnò leggermente. Non ebbi tempo di aprirla che lei disse, continuando a camminare verso l'uscita dell'aereo:

- Sono sicura che ti piaceranno! Le mie caramelle piacciono a tutti! Sono famose in tutto l'Ontario, sissignore! - E se ne andò blaterando di dolci, lontane cugine e ricette segrete mentre io riponevo quel piccolo tesoro nella tasca del giubbotto.

-

Il cartello di benvenuto a Toronto tipico degli aeroporti mi fece tirare un sospiro di sollievo: la verità è che non mi piaceva volare, mi sentivo intrappolato, senza vie di fuga e non vedevo l'ora di scendere.

Era una bella giornata, il sole splendeva limpido mentre all'uscita del ritiro bagagli i passeggeri incontravano le loro famiglie. 

Vidi mio padre da lontano, in piedi, vicino alla sua Station Wagon storica, i capelli spettinati. Non mi sembrava vero vederlo in carne ed ossa e non una sagoma nello schermo del cellulare. Alzai il braccio per farmi riconoscere, ma come al solito aveva scordato gli occhiali da vista, probabilmente sulla scrivania del suo studio, sotto qualche pila di documenti. Ci abbracciammo a lungo, un abbraccio sincero di quelli dove ci si stringe davvero e quasi si smette di respirare, mentre lui sussurrava senza rendersene conto:

- Dio, sembra una vita che non ti vedo, il mio ragazzo -

Il viaggio dal Toronto-Pearson Airport a Pickering fu più breve di quanto ricordassi. Mi piaceva andare in auto con mio padre, la sua maniera di guidare veloce ma sicura, la sua compilation degli U2 e il silenzio: sì, perché non parlavamo mai, non in macchina almeno, a volte canticchiavamo, ma per capirci bastava uno sguardo, un tipo di intesa tutto nostro.

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Pickering era rimasta la stessa: gli otto figli della signora Hastcomb giocavano nel giardino di casa vestiti da pirati, il proprietario del negozio all'angolo mostrava fiero alle sue clienti l'ultimo ritrovato per le doppie punte, Carrie Hoover spettegolava con le vicine appoggiata al cancello della sua villetta recentemente ridipinta di azzurro. Le schiere di case familiari monocolore ed i boschi in lontananza: questo mi era mancato, la normalità, quel senso di famigliarità che un posto poteva suscitare. Sì, i grattacieli newyorkesi ti toglievano il fiato e sì, vedere il tramonto su una spiaggia australiana era un'esperienza incredibile, ma quella sensazione di appartenenza, quel sollievo che si sente entrando a casa propria non può essere sostituito da nessun paesaggio meraviglioso, non quando ti manca almeno.

E infine eccola: una villa grigio chiaro, in fondo alla strada, con le finestre bianche e l'erba del giardino ben curata, un cespuglio di rose bianche a costeggiare il vialetto che portava all'entrata. Quante volte, sdraiato sul dondolo in veranda, avevo contato gli adesivi fosforescenti a forma di stella che mio padre aveva attaccato sul soffitto per festeggiare la nascita di Aaliyah.

Aprii la portiera e mi girai a prendere il borsone, ma fui subito distratto dal forte trambusto che proveniva da dentro casa. La porta si spalancò ed un mostriciattolo di poco più di un metro e sessanta mi corse in contro urlando. Lasciai cadere il bagaglio atterra preparandomi ad afferrarla quando mi si sarebbe buttata addosso: tenendo le braccia strette alla sua schiena la sollevai e facemmo insieme un paio di giri prima di buttarci sull'erba umida.

- Dio, Shawn, per fortuna sei arrivato! Non ce la facevo più a passare le serate a guardare gli streaming dei concerti con mamma! E guai se provavo a farle capire che le canzoni sono sempre le stesse! - Gracchiò arricciando il naso.

Qualche secondo dopo uscì mamma con lo strofinaccio in mano e i guanti gialli tirati fino ai gomiti:

- Aaliyah ma che diavolo fai! Hai fatto cadere il vaso di nonna! E tu, ragazzino, non vieni nemmeno a salutare tua madre?!-

Faceva la dura, ma sapevo benissimo che lei era quella a cui ero mancato di più e che forse sotto sotto avrebbe preferito vedermi prendere in mano l'azienda di famiglia invece della chitarra. Era una donna bellissima e gli anni non facevano altro che aumentarne la classe. Allargò le braccia e io mi lasciai stringere fingendo di non vedere che tentava di nascondere gli occhi lucidi.

- Avanti famiglia, la cena è pronta! - Disse dandomi un'ultima stretta mentre passava la mano su e giù sulla mia schiena.

Erano mesi che non mangiavo seduto a tavola.

-

Salii un gradino alla volta, godendomi la sensazione del legno sotto le piante dei piedi. Mi mancava la mia camera. Dietro la porta un poster invecchiato degli Oasis, una vecchia chitarra appesa al muro. Passai le dita sui miei vecchi libri di scuola impolverati e schiacciai qualche tasto a casaccio del computer sulla scrivania. Come facevo a vivere in così poco spazio?

Mi sdraiai sul letto lasciandomi trasportare dai ricordi:

"Shawn, il tuo nuovo Vine fa spaccare ti giuro!" disse Rob abbassando la visiera del cappellino sugli occhi "Sul serio, mio padre ha riso per un quarto d'ora ieri!"

"Smettila di fargli complimenti Rob o si monterà la testa questo mocciosetto!" 

Josh era il mio migliore amico da quando in prima elementare mi aveva prestato il suo giocattolo di Superman preferito e non si era arrabbiato dopo che lo avevo perso tornando dal mare.

"Sei solo invidioso dei miei 104 followers!" scherzai.

"Tanto lo sappiamo tutti che almeno cinquanta sono finti profili di tua madre!"

Ci buttammo sul letto ridendo a pieni polmoni senza curarci del fatto che fossero le quattro del mattino passate. 

Da tempo ormai non mi sentivo così felice. Troppo tempo.

Stavo scrivendo a Rob e Josh proprio in quel momento, quando, suonò il campanello, seguito qualche minuto dopo dalla voce di mia madre che gridava dal piano di sotto:

- Shawn, tesoro, è per te! Qualcuno è venuto a trovarti! -

Ci aveva messo fin troppo quel cretino di Josh a passare da casa mia. L'avevo avvisato qualche giorno prima: "i compagni di bevute sono tornati" mi aveva risposto ed io avevo solo voglia di rilassarmi con una birretta ghiacciata e i piedi nella sabbia. Scesi le scale a due a due, era troppo tempo che non vedevo quel brutto muso.

Ma non era lui. Era qualcun altro. Qualcuno che speravo di non vedere, che NON VOLEVO vedere.

Era la prima volta dopo quel giorno in spiaggia che i nostri occhi si incrociavano. Non la conoscevo più, lei non era più casa mia. Era la stessa sensazione che si provava a passare davanti alla casa vecchia dopo un trasferimento: nostalgia e tanti ricordi, ma la sensazione che non sia più nostra. I capelli rossi le cadevano sulle spalle. Li aveva tagliati.

- Ciao Shawn... - disse Lauren accennando un saluto con la mano.

Era passato quasi un anno e mi faceva male persino sentirle pronunciare il mio nome. 


***

Capitolo dos!

Questo capitolo non è niente di che, però presenta un po' Shawn e la sua famiglia...

Spero vi piaccia lo stesso!

Sono roselisachiodi su tutti i social!

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Do I Ever Cross Your Mind? || Shawn Mendes ||Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora