Giorno 4

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Erano le 16:00 in punto.
Meno tredici minuti alla chiamata del mio server.

La giornata fu frenetica.
Mia madre si divideva fra le chiamate, i dottori e gli ufficiali.
Mio padre le dava una mano.
Sapevo, anche se non parlava mai al telefono nella mia stanza quando si trattava di quel tipo di chiamate, che mia madre stava già pensando di andare in onda in TV a parlare della mia innocenza.
È già successo anni fa, stava succedendo di nuovo.
Mia madre perde il pelo ma non il fotogenico vizio.
Stavolta però, rispetto a quando ero un bimbo che viveva l'invasione di privacy in maniera tragica, la cosa mi tornava a favore.

16:05.
Il tempo aveva iniziato a scorrere lento e nonostante non potessi fare nulla per cambiare i fatti ero agitato.
Fu allora che si creò il caos fuori la mia stanza.

Si sentivanourla e schiamazzi.
Riuscivo ad intravedere dal vetro temperato al centro della porta un uomo litigare con gli agenti.
Non riusciva a procedere all'interno della stanza.
Poco dopo si calmò e la figura divenne stabile al punto da farsi riconoscere anche da dentro.
Era Giovanni.

Mi prese un nodo alla gola. Faticai a stare fermo, a non piangere.
Guardai sul soffitto ma la curiosità mi uccideva.
Giovanni era lì per motivi di ovvia disperazione.
Voleva sapere se stavo parlando, se stavo confessando.
Voleva sapere perché avessi tolto la vita al piccolo Mattia.
O quantomeno se l'avessi davvero ucciso.
Non credo comunque che per lui ci fossero dubbi sulla cosa vista la scenata.

Per fortuna mi trovavo nella posizione autoindotta di non dover parlare.
Quello che stavo facendo richiedeva un enorme grado di disciplina a cui mi sono addestrato negli anni.

16:15.
Mi persi l'ora X!
Mi ricordo di aver visto l'orologio saltare interi minuti tanto mi ero distratto.
Non vi aspettavate di certo un qualcosa di eclatante spero, perché in tal caso rimarrete delusi.
Il server si era attivato e aveva eseguito l'unica task che gli era stata programmata.
Ora, per sbaglio, era arrivata una mail mandata da me a me stesso sulla mia casella Gmail.
Sapevo che la polizia aveva già messo sotto custodia lo smartphone che avevo la sera dell'omicidio.
Ma di sicuro non avevano messo sotto custodia il tablet nella borsetta di mamma.
Mia madre è una ignorante digitale: gli impostavo tutto io, i device, gli account social, Netflix. Tutto.
Per fare prima avevo preso l'abitudine di inserire i miei account sui device invece di crearne alcuni ad hoc per lei.
Ok, questa abitudine era in realtà parte del piano.
Mia madre, nel suo tablet (che poi era il mio prestato) aveva collegata la mia email.

Si vide arrivare una mail promemoria con niente meno che la password del mio account Facebook.
Avrei potuto impostare sin da prima dell'omicidio la task temporizzata invece di rischiare nell'ospedale con lo smartwatch, ma volevo prima vedere l'andamento delle cose.
Se per esempio Giovanni, con giustizia sommaria ma innegabile, mi avesse picchiato a morte non sarebbe servito a nulla.

In ogni caso ero solito mandarmi delle password per ricordarmi gli accessi, e mia madre questo lo sapeva; non le sembrò strano.
Lì per lì ignorò il messaggio ma ben presto capì.

Capì che doveva entrare nel mio Facebook e cambiare la password prima che lo facesse la polizia.
Lo fece con insolita maestria digitale e  ancor più insolita velocità.

Il mio smartphone alla stazione era probabilmente rinchiuso, forse addirittura scarico.
Questo diede a mia madre un vantaggio temporale.

Mia madre aveva capito il da farsi e presto avrebbe anche capito che la password di Facebook era in realtà la password di ogni mio social.

Sapevo che mia madre si ricordava del dolore sopportato anni fa per colpa di Facebook.
Ora lo voleva come suo alleato, e così volevo io.

Come ho ucciso un bimbo e l'ho fatta francaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora