Mi ricordo di essere stato solo per parecchio.
Sentivo un gran vociare fuori la porta della mia stanza.
Mi trovavo all'ospedale Sant'Eugenio; devo ammettere di non aver frequentato per nulla ospedali nei miei ventisei anni e quindi tutto mi sembrava a dir poco singolare.
Non avevo manette ai polsi né restrizioni di alcun tipo.
Avevo addosso i miei vestiti e puzzavo di vomito ripulito male.Non so perché ci misero così tanto ad entrare nella stanza ma alla fine, verso le 12:00, entrarono due poliziotti.
Non sapevo assolutamente di che grado fossero.
Erano un misto di forzata gentilezza e di ostilità in un contrasto davvero particolare.
Uno dei due aveva un forte accento romano mentre l'altro era di chiare origine pugliesi.
Mi chiesero se ero apposto.
Mi chiesero se potevo parlare e quale fosse il mio nome.
Mi chiesero se avessi una idea del luogo in cui eravamo.
Mi chiesero... un sacco di cose.
Non risposi.
Ammutolito e con lo sguardo fisso verso il muro.
Rimasero lì per parecchio, almeno due ore.
Poi arrivò il dottore e mi visitò.
Mi controllò le pupille, mi misurò la pressione e provo a farmi rinsavire senza successo.
Il dottore si rivolse ai poliziotti.
- Il movimento delle pupille è regolare, dalle analisi ci risulta sano.Mi accorsi solo allora di avere una flebo attaccata.
Giuro, non ci avevo fatto caso prima che il dottore pronunciasse la parola analisi.
Feci il grave errore di guardare la flebo, ma subito i miei occhi tornarono catatonici.
Per fortuna nessuno dei tre si accorse della cosa.
- Sta fingendo?
- Possibile, come è possibile che sia ancora sotto forte shock. Ho richiesto un consulto specialistico.
- Quindi è inutile che gli facciamo domande ora?
- No, ma non siate molesti. Parlategli ma...
- Sì, sì. Abbiamo capito.Il dottore salutò e prese la porta.
I due poliziotti si guardarono fra di loro, come a cercare l'uno le risposte nell'altro.
Decisero di rimanere ancora un po'.
Mi chiesero se volevo dell'acqua.
Mi chiesero se volevo chiamare qualcuno.
Mi chiesero se avevo bisogno di qualcosa.
Non risposi e dopo poco, spazientiti, se ne andarono.
Era solo questione di tempo prima di rivederli ancora, magari con uno psichiatra o un assistente sociale o chi per loro.
Avevo poco tempo.
I miei genitori erano sicuramente stati avvertiti da molte ore. Se non erano ancora venuti a trovarmi era sicuramente perché non li facevano entrare.
Questo mi rafforzava l'idea che ero sempre e comunque il maggior sospettato.
Dovevo avere pazienza.
E dovevo rischiare la mia prima mossa.
Di sicuro mi avevano sequestrato lo smartphone.
Sapevo che nei prossimi giorni sarei stato tagliato fuori dalle comunicazioni, per questo avevo predisposto un sistema.
Forse dovrei dirvi che il mio lavoro, da molti anni a questa parte, è il programmatore.
Lavoro nel campo relativo ai Big data: sistemi di raccolta dati così grandi e così estesi da necessitare di algoritmi sempre più sofisticati per il campionamento delle informazioni.
Una noia, lo so.
Ho spesso sognato di trasferirmi nel campo della mia vera passione: intelligenze artificiali.
Ero anche molto portato per il deep learning ma questo avrebbe voluto dire avere una carriera molto più definita e avrebbe voluto dire una cosa certa: trasferimento.
Come vi dicevo, Roma doveva subire questa storia.
Altro motivo per non dedicarmi ad altro era che potevo usare a mio piacimento dei server aziendali talmente pieni di informazioni da poter nascondere nei petabyte piccoli stralci utili al mio scopo.
Ed è quello che feci.
Avevo bisogno di un piccolo spazio, piccolissimo.
Lo spazio di un file di testo che contenesse poche righe.
Come vi dicevo, avevo già messo in conto che nei prossimi giorni non mi sarebbe stato fornito alcun accesso a smartphone, pc e più in generale ad internet.
Sapevo però che non mi avrebbero, almeno in un primo momento, perquisito a fondo.
Misi una mano nelle mutande e tirai fuori un piccolo smartwatch senza cinturino che avevo attaccato con del nastro all'interno delle natiche.
Lo smartwatch aveva una SIM, riuscì così a collegarmi al mio server nascosto nell'oceano dei dati di grandi aziende telefoniche, televisive, dell'automobilismo e via dicendo.
Non fu una connessione come siete abituati nei film, a dire il vero digitai semplicemente un indirizzo che conoscevo a memoria sul browser.
Apparve una pagina bianchissima con una scritta: Query done.
Da quel momento avevo soltanto 48 ore per sistemare le ultime cose.
La prima cosa da sistemare era nascondere lo smartwatch, unica prova fisica in mio possesso.
Quando uno deve nascondere qualcosa pensa semplicemente a toglierla dalla vista di chiunque.
Non era un modo efficace.
Svuotai la cache del browser, strofinai per togliere le impronte digitali e semplicemente lanciai a terra il device che andò a finire sotto un lettino.
Non era riconducibile a me in nessun modo.
Non aveva collegato nessun mio account e aveva una serie di foto di persone random.
Qualcuno lo avrebbe trovato e l'avrebbe tenuto.
E se anche si fossero rivolti alla polizia non sarebbe cambiato nulla.Entrò lo specialista e due nuovi poliziotti seguiti da un signore vestito in borghese.
Peccato, avevo l'impressione che i poliziotti di prima fossero più malleabili.
Arrivò il momento delle analisi.
Rimasi fermo per ore mentre mi ronzavano attorno.
Ero fisso su un unico pensiero che mi ronzava nella testa.
- 47 ore
- 46 ore
- 45 ore
Mi concentrai talmente tanto che non mi ricordo altro della giornata.
Nessuno mi aveva sentito fiatare dalla morte di Mattia.
Ottimo così.
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Come ho ucciso un bimbo e l'ho fatta franca
Misteri / ThrillerVi racconto la mia storia, di come un giorno ho ucciso un bambino di sei anni e il mondo mi ha assolto.