Parte senza titolo

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Senza alcuna reazione

Quando venni al mondo in un'afosa giornata di agosto, la stanza era insolitamente silenziosa a parte i miei primi vagiti e la voce rassicurante dell'ostetrica, che se ne era andata da pochi minuti. Nessuno esultava per la mia nascita: mia madre, una donna dal carattere docile e remissivo, con il capo reclinato su un lato del cuscino, si era da poco assopita. I miei occhi vagavano ancora per la stanza alla ricerca di un'altra presenza: quella di mio padre. Ma lui non c'era e per parecchi giorni non si fece vivo. Compresi solo molti anni più tardi il motivo di quel suo comportamento, non vi era tra i due il sacro vincolo del matrimonio e mio padre, ancora giovanissimo, non sentiva alcuna responsabilità nei confronti miei e di mia madre. Per qualche mese vivemmo nell'abitazione di un'agiata famiglia, nella quale mia madre continuava a prestare servizio. Mamma Adriana era orfana di entrambi i genitori e quando uscì dal collegio, in cui aveva trascorso la sua adolescenza, le suore le trovarono un lavoro presso la famiglia Cerquetti, una tra le più stimate e rinomate di Roma. In quella lussuosa casa, mia madre aveva ritrovato quel calore familiare che non aveva mai avuto in tutti quegli anni. Ricordava solo vagamente la figura di suo padre, Vittorio Emanuele, morto prematuramente di tisi: un uomo dall'aspetto sempre curato che si lisciava continuamente i folti baffi neri e guardava il mondo attraverso uno sguardo dolce e malinconico. Sua madre, Alberta, una donna dalla salute cagionevole, conduceva una vita molto appartata. Era una signora riservata che non prestava molta cura al suo aspetto fisico. Le era sufficiente raccogliere i lunghi capelli castani in una treccia che poi faceva girare tutt'intorno alla testa. Le sue bianche e affusolate mani fissavano nervosamente quell'acconciatura con alcune forcine. Questo rituale, eseguito tutte le mattine, era l'unica civetteria che osava permettersi, prima di sbrigare le faccende domestiche e mettersi a ricamare tovaglie, vestiti, che le signore benestanti le commissionavano con una certa urgenza. Lo sguardo di Alberta era sempre assorto e dopo la morte del marito, tutti i suoi pensieri erano rivolti al lavoro, senza rendersi conto che le sue figlie, Adriana e Anna, stavano crescendo con un gran bisogno delle sue attenzioni e del suo affetto. Mia nonna morì di tifo qualche anno dopo la scomparsa del marito e le bambine vennero rinchiuse in due diversi collegi, all'età, rispettivamente, di dieci e sette anni.

I Cerquetti erano persone che rispettavano i principi cristiani e non maltrattavano la servitù, alla quale spettava anche un giorno libero alla settimana: la domenica. Mia madre non aveva amicizie e preferiva trascorrere quella giornata recandosi alla Santa Messa la mattina, aiutare il parroco a controllare che i bambini dell'oratorio non uscissero sulla strada e a rammendare i suoi vestiti. Fu proprio in una di queste monotone giornate che, all'uscita della chiesa, incrociò lo sguardo di un giovane: mio padre, incuriosito e divertito dal suo comportamento impacciato e dal lieve rossore che coloriva il suo pallido volto, quando le rivolgeva la parola. Lui proveniva da una famiglia della media borghesia. Mio nonno Umberto era impiegato statale e mia nonna Assunta aveva ricevuto una cospicua dote al suo matrimonio. Mio padre, Mario, era il più scapestrato tra i suoi tre fratelli e, mentre gli altri avevano già fatto le proprie scelte per l'avvenire, prendendo consigli dai loro genitori, lui non si era abbassato a tanto, voleva vivere senza condizionamenti, alla giornata.

Di costituzione robusta, i biondi capelli ondulati che gli ricadevano leggermente sulle ampie spalle, Mario era un giovane dallo spirito inquieto, un ribelle, un impulsivo, un temerario, in continua ricerca di nuove avventure. Indossava abiti finemente confezionati, che denotavano un certo buongusto e ciò contribuiva ad attirare l'attenzione delle giovani signore su di sé. Nella sua vita era attratto solo dalle belle donne, le corse ciclistiche, la pittura e i cavalli. Studiò disegno per qualche anno alla scuola statale poi, reputandosi migliore del suo maestro, decise di interrompere gli studi e cercare fortuna negli ambienti frequentati dagli artisti della sua città.

«Non puoi continuare a vivere di espedienti, solo perché non ti interessa lavorare come tutti i comuni mortali. Per quanto tempo credi di poter proseguire su questa strada? E comunque, se vuoi rimanere in questa casa, dovrai imparare a rigare dritto e a non chiedere più soldi a tua madre», gli rimproverò una sera nonno Umberto, stanco di vedere l'inoperosità e la stravaganza di suo figlio.

Fu così che mia madre rimase vittima delle schermaglie amorose di mio padre che, oziando tutto il giorno, non sapeva far altro che infastidirla. I Cerquetti avevano una bambina, Clotilde, assai timida, che soffriva di solitudine, in quanto trascorreva la maggior parte del suo tempo in casa, senza poter incontrare i bambini della sua età. Il suo animo era sensibile e generoso. Ogni tanto faceva capolino dalla porta della stanza dove dormivamo io e mia madre, per assicurarsi che non cera nessuno e lentamente si avvicinava al mio lettino per farmi delle timide carezze, poi tutta contenta se ne ritornava in sala. Forse inconsciamente desiderava poter avere una sorellina con la quale dividere i suoi giochi, la sua infanzia e soprattutto quell'abitazione così enorme.

Finalmente, una sera vidi per la prima volta mio padre, che era venuto a trovarci per far sapere a mia madre che aveva trovato una vecchia casa in affitto nei pressi di via Alberto da Giussano, laddove abitavano i suoi genitori e che poteva dire addio alla famiglia Cerquetti. Questi ultimi avevano fatto capire a mia madre che poteva rimanere nella loro abitazione, insieme alla bambina, per tutto il tempo che desiderava, fintantoché non avesse trovato una sistemazione migliore.

Mia madre, infatuata da quell'amore, senza riflettere due volte sulla proposta ragionevole dei suoi datori di lavoro, si lasciò convincere da mio padre. Abbandonò quella casa e quelle persone che le avevano permesso di vivere decentemente, per seguire un uomo del quale ancora non conosceva il carattere instabile e turbolento e un destino tutt'altro che sereno. In cuor suo mia madre sperava che andando a vivere con mio padre, lui l'avrebbe presto sposata. Quanto era lontana da quelli che erano i pensieri più reconditi di mio padre, dal vero motivo per cui lui l'aveva trascinata in quell'assurda situazione, senza offrirle una sicurezza economica e soprattutto un matrimonio legittimo.

Nonno Umberto aveva troncato ogni rapporto con il figlio. Stanco e deluso di vederlo bighellonare, oziando dalla mattina alla sera, senza concludere qualcosa di positivo, lo aveva chiuso fuori di casa. Ma mio padre non si perse d'animo, dipinse qualche tela e vendendola ora al fruttivendolo, ora al fornaio, si era assicurato per qualche giorno il pane quotidiano. Mia madre per sfamarmi aveva accettato di ricamare per alcune famiglie agiate, che abitavano nei quartieri residenziali della capitale.

VOGLIA DI FUGGIREDove le storie prendono vita. Scoprilo ora