Capitolo 10

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La voglia di fuggire, di abbandonare tutto e tutti cresceva dentro di me a dismisura. Volevo vivere un'esistenza più tranquilla, senza vedere mia madre soffrire e piangere in ogni momento della giornata; senza dover sopportare l'idea di continuare ad abitare tra quattro mura, in uno spazio divenuto ormai stretto per tutti e sette.

Mi avviai verso l'uscita di casa, non avrei portato via niente con me, in fondo non avevo altro che quei quattro stracci logori, che coprivano un corpo troppo esile per la mia età. Mi soffiai il naso con un lembo del vestito e mi passai il dorso della mano sugli occhi per asciugarmi le lacrime.

Mi voltai ancora una volta indietro, per convincermi che quella fuga era l'unica alternativa che avessi, se volevo cambiare il mio modo di vivere. Non mi sentivo in colpa e mi chiusi la porta alle spalle.

Camminavo lentamente e a testa bassa. A casa non c'era nessuno in quel momento. I miei fratelli erano come al solito a giocare al campetto dell'oratorio, mentre mia madre si era fermata a parlare con la moglie del farmacista, con la speranza che quest'ultima avesse dei vestiti da rammendare o stirare, per riuscire ad ottenere qualche soldo per tirare avanti. Una vera fortuna per me, in tal modo non avrei dovuto darle alcuna spiegazione.

Le lacrime continuavano a scendere copiose sul mio volto, impedendomi di vedere nitidamente davanti a me.

Ero arrivata all'angolo della strada, era il momento di decidere in fretta la direzione da prendere, ma all'improvviso mi resi conto che non avevo pensato ad alcuna meta e mi bloccai, consapevole che non sarei riuscita più a compiere un altro passo in avanti.

«Teresì, bella de zia, ma dove te ne vai?», sentii una voce calda e affettuosa che mi chiamava.

Era zia Anna, la sorella di mia madre, una donna che malgrado sei gravidanze, conservava ancora l'aspetto florido di quando era ancora nubile. Sul suo volto non avevo mai visto passare un'ombra di preoccupazione ed era sempre di buon umore, nonostante le percosse che il marito le infliggeva quotidianamente. Era l'unica persona, oltre mia madre, che mi aveva voluto sempre bene e con la quale mi confidavo, facendomi sentire ogni volta completamente a mio agio.

«Voglio andare via da questa casa, da questo polveroso quartiere, dalla miseria in cui mio padre ci tiene. Voglio avere la possibilità anch'io di vivere serenamente. Lavorerò, ma almeno non dovrò più pensare alla mia famiglia», le confidai a cuore aperto.

«E sentiamo, dove vorresti andare? Hai considerato che sei troppo giovane, per impegnarti in un lavoro dove saresti solo sfruttata? Che potresti trovare dei principali che potrebbero maltrattarti? Non è meglio crescere ancora un poco, stringere i denti, capire bene ciò che si desidera dalla vita, trovare un lavoro decente e mantenere integra la propria personalità? E poi non ti angoscia sapere come reagirebbe tua madre che ha ancora molto bisogno di te e il dolore che le procurerebbe una tua improvvisa partenza, senza spiegazioni, senza una meta sicura, alla mercé di uomini senza scrupoli, che potrebbero approfittare della tua innocenza?», mi fece osservare zia Anna.

Quelle parole mi colpirono profondamente, non avevo riflettuto sulle conseguenze del mio gesto, su tutto ciò che avrei trovato all'esterno della mia abitazione: i pericoli, gli imprevisti, ma soprattutto non avevo la più pallida idea della direzione da prendere. Salutai la mia cara zia con un affettuoso abbraccio e me ne tornai a casa. Qui i miei familiari non erano sopraggiunti e ancora una volta, i miei cari erano all'oscuro del mio gesto. Mi ripulii il viso dalle lacrime e cominciai a preparare la magra cena.

Tutto il mondo era in guerra e l'Italia non fu risparmiata dai bombardamenti. Nella primavera del 1943 il fascismo era in piena crisi. Lo sbarco degli Anglo-Americani in Sicilia il 9-10 luglio e il bombardamento di Roma il 19 luglio a Porta san Paolo, confermarono la sensazione dell'inevitabilità della sconfitta.

Il terrore si era cominciato ad instaurare nel nostro animo, in tutta Roma si erano costruiti dei ricoveri. Nei pressi della nostra abitazione ne avevano aperto uno: si trattava per lo più di grotte. Appena sentivamo le sirene dell'allarme, correvamo, senza riflettere sulla loro sicurezza, entro questi angusti luoghi. A volte prendevamo posto nei rifugi sin dalla mattina. Donne e bambini seduti per terra, si guardavano, pallidi in volto e si interrogavano sulla durata dell'attacco aereo. Il chiarore di qualche pallida fiammella dei candelotti, proiettava sulle asperità dei muri le lunghe ombre dei rifugiati, che distorte, sembravano apprestarsi ad iniziare una macabra danza. Gli anziani erano i più colpiti dal disagio di non poter riuscire a raggiungere tanto in fretta i ricoveri e, per alleviare loro la fatica di una corsa affannosa, si vociferava che bastava infilarsi sotto la rete del letto, per non rimanere feriti, perché la bomba sarebbe rimbalzata su quest'ultima, lasciandoli incolumi.

L'ignoranza, l'analfabetismo erano assai diffusi tra le famiglie povere e si credeva con facilità a tutto ciò che qualche persona un poco più istruita, faceva circolare in giro.

È naturale che un'affermazione del genere faccia solo ridere, ma non si riusciva, in quei tragici momenti, a comprendere il significato vero e proprio dei termini: guerra, bomba, bombardamento, prigionia. Roma era stata fino allora una città in cui la vita, malgrado il fascismo e la dittatura, trascorreva tranquilla. Il carattere ottimista, ingenuo e un poco superficiale degli abitanti non era mutato in quegli anni. Si pensava che tutto sarebbe finito in breve tempo e si sarebbero sistemate tutte le varie questioni: politiche, finanziarie, della disoccupazione e soprattutto della fame.


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