Capitolo 6

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Una sera, mio padre, invitò nella nostra abitazione la sora Rosetta e suo marito, per una seduta spiritica. La sua mente diabolica aveva escogitato un mezzo per alzare il treppiedi, senza destare alcun sospetto nelle sue due vittime. Aveva appeso alla parete della camera un telo di stoffa di colore blu, per creare un'atmosfera particolare e, con la rimanente, ne aveva ricavato un cono che aveva posto attorno alla lampadina per ottenere una luce fioca. Aveva legato, infine, dello spago ad una zampa del tavolino, attorcigliandolo al dito della mano. Tutto era pronto per il grande evento. Naturalmente a noi bambini era stato proibito di partecipare o guardare la scena da vicino e così seguivamo i suoi gesti fuori dal portone di casa.

«A sor Mario, nun è che famo na cosa seria vero? A me li morti fanno paura, è mejo nun svejarli, che ne dite?», gli chiese tremante la sora Rosetta.

«Sora Rosé è na seduta che serva pe vedè se quarcheduno ce ne risponne, nun c'è gnente de tanto pauroso. Mo cominciamo, formamo la catena e chiamamo l'anima der buon zio Marcello. Zio Marcé se ce sei batti 'n corpo!», ribattè mio padre che già pregustava il divertimento.

E il tavolino traballò un poco.

«Zio Marcé, se ce sei fatte sentì!», ripeté mio padre.

E di nuovo il treppiedi si mosse. A questo punto la sora Rosetta terrorizzata, si alzò in gran fretta e con voce rotta dall'emozione esclamò gridando: «A sor Mario, a faccenda se sta facenno seria, nun ma sento più de sta qui, anzi sapete che ve dico? Che devo andà subito ar cesso!», così dicendo s'avviò verso casa.

Noi che avevamo assistito alla scena dall'inizio alla fine, scoppiammo a ridere senza riuscire più a fermarci. Il marito della sora Rosetta che era rimasto vicino a mio padre, senza parlare fino a quel momento, credendo che si era fatto avanti lo spirito dello zio di Rosetta, sentendoci ridere, s'infuriò perché non aveva immaginato che si potesse trattare di uno scherzo e risentito lasciò la nostra casa. Mio padre, dopo le prime risate, constatato che gli avevamo rovinato lo scherzo, uscì dal portone e cominciò a picchiarci ripetutamente, tanto che avvertivo un gonfiore smisurato sul volto. Mia madre corse a difenderci, ma anche lei fu vittima della furia scatenatasi in lui. Un ennesimo colpo sul viso la fece traballare, perse l'equilibrio e cadde sul selciato svenuta. All'improvviso tutti ci fermammo come paralizzati alla vista di quel corpo che giaceva a terra inerme. Giacomo, che era il più agile e il più sveglio tra i miei fratelli, andò subito a chiamare la sora Marietta, che aveva sempre un rimedio per ogni situazione. Mio padre, per pochi attimi, rimase allibito a guardare quel corpo immobile e la sua vigliaccheria fu talmente evidente che la paura gli fece mettere le ali ai piedi, scavalcò il muro di recinzione del nostro cortiletto, saltò sul tetto di un'altra abitazione e si dileguò nel nulla. Mia madre fu trasportata in ospedale, non si trattava di un semplice svenimento, ma di un infarto. Trascorsero circa tre settimana prima che venisse dimessa dal nosocomio. Nel frattempo il lavoro per me era aumentato e dovevo provvedere anche al mantenimento dei miei fratelli. Per fortuna con i loro piccoli furtarelli riuscimmo a sopravvivere anche senza l'aiuto di mio padre.

«Io lo denuncio quello lì, chi si crede de esse, er dominatore e che vò dimostrà?», sbottò un giorno Gianluca, il più ribelle tra i miei fratelli.

Ma le sue minacce non erano state pronunciate invano e una sera che mio padre era ritornato a casa, per avere notizie della mamma, qualcuno bussò alla porta. Erano i carabinieri.

«È lei il signor Mercianti?», gli chiese uno dei due, con voce squillante.

«Sì», riuscì a farfugliare mio padre.

«C'è una denuncia a suo carico, da parte di suo figlio Gianluca, per maltrattamenti e percosse a un minorenne. Conferma?».

«Nun me pare de avè mai menato a 'sto bambino come dite, è naturale pe' 'n padre dà 'no schiaffo a 'n fijo, quanno che se lo merita, e pe' 'sto motivo nessuno è mai annato in priggione», obiettò mio padre.

«Qui non si tratta di uno scappellotto, ma di una serie ripetuta di colpi ricevuti senza un motivo valido che lei avrebbe affibbiato a suo figlio, guardi la sua schiena!», indicò il carabiniere.

Nel frattempo Gianluca si era tolto la maglietta, mostrando i segni ben evidenti della cintura di pelle di mio padre.

«Ma io...», cominciò a balbettare mio padre.

«Ora ha ricevuto un avvertimento, la prossima volta che il bambino inoltrerà un'altra denuncia, lei verrà portato in prigione».

I carabinieri se ne andarono e mio padre crollò abbattuto sulla sedia. Noi, intanto, eravamo sgattaiolati furtivamente fuori di casa, temendo una reazione violenta da parte del "matto", così lo avevamo soprannominato, in quanto l'appellativo padre, mal si addiceva ad un uomo del suo genere. Il "polpo", era riuscito ad intimidirlo.

Per qualche giorno non si fece vivo e quando doveva chiedere notizie di sua moglie, si recava direttamente a casa della sora Marietta, la radio ambulante che sapeva tutto di tutti. 

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