Il terrore del collegio
Mia madre si ristabilì dopo molte cure, anche il neonato superò quella fase critica, crebbe robusto e paffutello, ma con un carattere introverso e sempre taciturno. Come al solito quando c'era bisogno di una presenza maschile nella nostra casa, che si prendesse la responsabilità di quanto stava accadendo, nostro padre spariva e, per giorni interi, non si riusciva ad avere alcuna notizia di lui. Si dileguava completamente dal nostro mondo fatto di miseria e di bisogno d'affetto, per rincorrere i suoi malsani ideali di vanagloria, di giocatore incallito, di protagonista in tutte quelle attività che richiedevano una certa inclinazione al rischio.
Era una fresca mattina di primavera, giocavamo sulla strada davanti la nostra casa, indossando i grembiulini che la mamma ci aveva cucito e, nei dintorni, tutti i bambini ci guardavano con una sorta d'invidia, in quanto gli abiti erano nuovi e puliti. Mia madre era fiera ed orgogliosa di noi e non smetteva più di raccomandarci di non sporcarci. Ci mirava finalmente tutti e tre, completamente vestiti, pettinati, per la prima volta dopo tanto tempo aveva la soddisfazione di guardarci come figli suoi e non come piccoli zingari. Quella non fu l'unica sorpresa di quel giorno, mentre giocavamo notammo avvicinarsi alla nostra abitazione due distinte persone che bussarono alla porta. Quando mia madre l'aprì, rimase per un attimo senza parole e, dopo il primo attimo di stupore, ci chiamò per entrare in casa. Erano i genitori di nostro padre, i miei nonni, che dopo tutti quegli anni si interessavano della situazione familiare del figlio.
«Vengo subito al sodo», disse nonno Umberto con voce risoluta e aspra, evitando di sedersi e tenendo sotto controllo la situazione dall'alto dei suoi centottanta centimetri di altezza. «Senza troppi preamboli, ti faccio presente che mio figlio è il classico mascalzone che ti farà soffrire ancora se non lo lascerai. Che futuro puoi offrire ai tuoi figli se non vedono mai il loro padre? Non puoi tenerti i bambini e provvedere a loro senza un sostegno economico. Lascia tutta la faccenda nelle nostre mani. Manderemo in collegio i bambini, sosterrò io tutte le spese, tu potrai trovarti un lavoro e vivere decentemente».
«I miei bambini rimarranno con me, mangeranno quello che con i miei sacrifici riuscirò a dar loro e non gli farò mai mancare il necessario. Per quanto riguarda vostro figlio è affare vostro, i bambini porteranno il mio cognome e nessuno me li toglierà», ribatté seccata mia madre.
Non l'avevo mai sentita parlare con un tono di voce così deciso, avevo avuto paura che la sua innata timidezza non le permettesse di opporsi. Ero felice che in quel momento fosse riuscita a ritrovare l'energia necessaria per difenderci da tutti. Questo suo gesto avrebbe significato vivere ancora vicino a lei e ai miei fratellini. La parola collegio in qualche modo mi terrorizzava. Mia madre vi aveva vissuto per tanti anni ed erano rare le volte in cui ci raccontava qualche episodio della sua adolescenza che quei pochi mi si erano talmente impressi nella mente, facendomi detestare quell'ambiente austero e opprimente.
«Le suore ci facevano entrare in una grande stanza con al centro un tavolo e delle panche tutt'intorno e alla luce fioca di poche candele, io e le mie compagne, in silenzio, dovevamo infilare con del filo tanti semi di melone per confezionarne dei rosari. Trascorrevamo in quel luogo qualche ora e quando ne uscivamo la luce del chiostro, che era pur sempre così soffusa, ci procurava fastidio, come se ci abbagliasse. In tal modo, giorno dopo giorno, anno dopo anno, la mia vista cominciò ad indebolirsi notevolmente», terminava sempre il suo racconto con un sospiro di rassegnazione e uno sguardo velato dalla tristezza.
La paura di ritrovarmi chiusa in una stanza buia, di diventare vittima di duri maltrattamenti e non avere qualcuno che mi potesse proteggere, mi faceva sentire ancora più angosciante la mia solitudine. Forse proprio per non deluderci ulteriormente, nostra madre si era opposta con tutte le sue forze, per toglierci almeno il dispiacere di ritrovarci in un luogo così spaventoso. Nonna Assunta, che indossava un abito scuro, che le metteva in risalto il pallore del volto, non aveva pronunciato una parola. Durante la visita, non aveva fatto altro che continuare a stringere nervosamente fra le mani un fazzoletto ricamato, lasciando che il marito risolvesse al più presto quella incresciosa situazione. Non avendo potuto raggiungere il suo scopo, scuro in volto, nonno Umberto, che nella sua vita era la prima volta che riceveva una dolorosa sconfitta, fece cenno alla moglie di seguirlo. I miei nonni uscirono di casa, visibilmente contrariati. Si erano interessati alla nostra situazione solo perché gli erano arrivate alcune voci che ci descrivevano sudici come gli zingari e nessuno si curava della nostra istruzione. Mio nonno si era umilmente degnato di venirci a trovare, per constatare in quali condizioni versavano i suoi nipoti, solo per il buon nome della famiglia. Lentamente mi stavo rendendo conto della società che mi circondava, dell'aridità delle persone che ci stavano vicino e, con grande pena, constatai che solo mia madre soffriva più di tutti in quell'assurda vicenda. Nonostante fosse esposta alla mercé della loro malvagità, imperterrita continuava la sua lotta per non piegarsi, sacrificandosi per un pezzo di pane.
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VOGLIA DI FUGGIRE
Historical FictionLa vicenda si svolge a Roma negli anni tra il 1928 e il 1950. Teresina, la primogenita, nasce alla fine degli anni Venti da genitori che non si sono sposati. Il padre violento e la madre debole e umile faranno da cornice alla sua infanzia avvolta da...