Capitolo 5

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I primi duri colpi

Quella mattina mia madre era raggiante in volto. Indossava per la cerimonia civile, un tailleur rosa pallido con una piccola gardenia bianca all'occhiello, che aveva ottenuto in prestito da una signora per la quale lavorava. Aveva raccolto in un gran chignon i suoi lunghi e castani capelli e, mantenendo la capigliatura morbida all'attaccatura della fronte e delle tempie, con l'aiuto di alcune forcine era riuscita a modellare tante ciocche ondulate che aveva fissato con un po' di lacca che le aveva lasciato, la sera prima, sul tavolo la cognata. L'incarnato del volto appariva fresco e vellutato pur senza usare cosmetici. Era una donna dai gusti semplici, non amava indossare abiti dalle fogge particolari che l'avrebbero fatta sentire a disagio, ma preferiva quelli dalla linea dritta, che le nascondevano le rotondità della maternità.

Io e i miei fratelli fummo lasciati alla custodia della sora Marietta, una donna intrigante e pettegola, come del resto tutte quelle che abitavano vicino la nostra casa. L'unica differenza era che la donna si rendeva disponibile verso chiunque le chiedeva qualche favore. La mamma ci aveva raccomandato di non uscire sulla strada, perché al suo ritorno ci avrebbe voluto ritrovare con gli abiti in ordine e puliti. Ci teneva a far bella figura davanti ai suoi futuri suoceri, cognati e cognata. I suoi bambini ora avrebbero avuto entrambi i genitori, che si sarebbero interessati di loro costantemente e non sarebbero stati considerati più dei piccoli zingari. In cuor mio avevo paura, quel matrimonio avrebbe significato vedere tutti i giorni mio padre, vivere ora dopo ora con lui vicino. Quell'uomo mi terrorizzava. Ero incapace di reagire quando gli ero davanti e riuscivo solo ad abbassare la testa, mi sentivo succube dei suoi comandi e delle sue percosse.

I primi giorni con lui in casa trascorsero piuttosto tranquilli, era troppo interessato a trovarsi un lavoro e a fare amicizia con le varie famiglie del quartiere. Lavorare non era una parola molto gradita a mio padre, che preferiva la vita dell'artista, senza orari, coricarsi tardi la sera, alzarsi a mezzogiorno la mattina, fare un'abbondante colazione e poi andare in giro tutto il giorno, ripresentandosi all'ora di cena. La notte era solito mettersi a dipingere delle grandi tele, fino allo spuntare dell'alba. Aveva talento, peccato che le rivendeva ai negozianti del quartiere per un poco di prosciutto, dolci e un fiasco di vino. Quando pranzava o cenava, stargli accanto rappresentava per noi una vera e propria tortura. Naturalmente mia madre ci faceva mangiare prima e quando lui si sedeva a tavola, noi stavamo dritti in piedi alle sue spalle come tanti servitori, pronti ad assecondare ogni suo desiderio. Dietro la nostra casa c'era una fontanella e mio padre non si accontentava di avere la bottiglia dell'acqua fresca sul tavolo, ma pretendeva che appena il bicchiere fosse mezzo vuoto, fossimo pronti ad andarlo a riempire.

Ci sentivamo trattati come piccoli schiavi, ma non osavamo accennarglielo, avevamo troppa paura delle sue percosse. In quegli anni erano nati altri due fratelli: Gianluca e Concetta. Gianluca era un bambino piuttosto paffutello, biondissimo, occhi chiari, mangiava in continuazione ed era stato soprannominato il "polpo". Concettina era la preferita di mio padre, non le faceva mancare proprio nulla. Le comprava il filetto di vitella affinché si irrobustisse, il brodino doveva essere di pollo, perché più leggero e, per finire, la mattina doveva fare colazione con un cappuccino e una brioche calda.

Inutile dire che tutti quei trattamenti particolari, da principessina, ci facevano sentire più che emarginati, come se noi non fossimo suoi figli. Quando Concettina mangiava, eravamo tutti attorno a lei, sbavando dalla fame, credendo che impietosita dai nostri volti tristi, ci lasciasse un po' di quel ben di Dio. Lo sguardo di mia sorella si posava su di noi, ci sorrideva maliziosamente e ritornava a consumare con avidità ciò che aveva nel piatto. Il suo egoismo era smisurato, non ci trattava amorevolmente come suoi fratelli, ma come i suoi sudditi. Se non ci comportavamo come pretendeva lei, cominciava a strillare e nostro padre, sempre pronto a difenderla anche quando aveva torto, senza chiedere alcuna spiegazione dell'accaduto, iniziava a far volare pugni a destra e a sinistra, incurante della parte del corpo che veniva colpita. Così per i suoi capricci, ci ritrovavamo con qualche occhio nero e senza neanche un pezzo di pane per la cena.

Non ero gelosa di mia sorella e dei suoi trattamenti, e neanche la odiavo, la giustificavo perché era ancora piccola e alla sua età era considerato pretendere troppo che si rendesse conto di come si stava comportando nei nostri riguardi. Ben presto cominciai a capire che se volevo vivere tranquillamente dovevo trattarla con indifferenza, proprio come se lei non esistesse nella nostra casa.

Mio padre si era trovato finalmente un lavoro: realizzava tende da sole. Era tra i pochi fabbricanti di Roma e naturalmente nei primi tempi il lavoro era piuttosto considerevole. Tutti in famiglia aiutavamo nostro padre, io e Giacomo trasportavamo a mano (sarebbe più giusto dire a spalla) le tende che dovevano essere poste in opera nei negozi. Quando arrivavamo a destinazione (a volte dovevamo attraversare tutta la città), eravamo stanchi ed affamati, mentre nostro padre ci raggiungeva più tardi in sella alla sua bicicletta, fresco e ben rimpinzato.

I soldi che guadagnava ci bastavano appena per vivere, purtroppo il vizio del gioco non l'aveva abbandonato e tratteneva per sé, per le sue spese, diceva lui, buona parte del denaro. Ormai ero in grado di capire la nostra situazione familiare e all'età di dodici anni, odiavo con tutta me stessa quell'uomo ipocrita, egoista e avido di soldi, che ci costringeva a trascorrere un'esistenza nella miseria.

«Mamma, perché non ce ne andiamo via di qui, ci troviamo un'altra casa e lo abbandoni al suo destino? A lui non interessa niente di noi e di quello di cui abbiamo bisogno. In questa casa ritorna solo per mangiare, cambiarsi la biancheria e dormire su un letto dalle lenzuola fresche di bucato. Che ti dà un uomo come lui oltre alle percosse?», le chiesi una sera, approfittando che i miei fratelli erano andati a dormire e mio padre era rimasto al bar con alcuni amici.

«Dove andiamo, non abbiamo soldi, tu e i tuoi fratelli siete ancora tanto piccoli e poi credi che il mondo lì fuori sia pronto ad accoglierci benevolmente? La vita è dura e quando inizierai a lavorare capirai che il pane degli altri ha sette croste e che nessuno ti regala qualcosa!», obiettò con fermezza.

«Ma allora dobbiamo rimanere sempre qui, con lui che ci picchia solo per il piacere di fare qualcosa e tu che hai sempre gli occhi neri e gonfi. Questa non è vita, appena riuscirò a mettere da parte qualche lira, me ne andrò via, voglio lasciare questa baracca in cambio di una vera casa!», reagii con un'esplosione di rabbia che denotava il grande disappunto e la delusione che le sue parole avevano provocato in me.

Mia madre ora mi guardava pensierosa, non si sarebbe mai aspettata da me quella reazione e aveva paura che la abbandonassi veramente, attuando il mio proposito. In fondo tutte le sue speranze erano riversate su di me, ero l'unica ad assolvere i compiti di casa, passavo le ore al lavatoio a insaponare, strofinare e risciacquare tutta la biancheria dei miei familiari. Ero sempre io che la sera aiutavo i miei fratelli a fare il bagno, dopo aver preparato un gran recipiente di acqua calda e, uno alla volta, li frizionavo con una pezza ruvida per togliere dalla loro pelle le incrostazioni del fango e la sporcizia. Lasciare sola mia madre in quel periodo, avrebbe significato caricarla di un lavoro gravoso che il suo fisico, già duramente debilitato, non avrebbe del tutto sopportato. Ero stanca di quella situazione, di vedere le altre bambine giocare e divertirsi in strada, i miei fratelli uscire la mattina e rientrare la sera, senza doversi sobbarcare la mole di lavoro che c'era in casa.

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