Per qualche mese di mio padre non ricevemmo alcuna notizia, sembrava essersi dileguato nel nulla. Mia madre mi aveva iscritta a scuola, naturalmente con il suo cognome e non poteva certo immaginare che ciò mi avrebbe creato altre umiliazioni. I primi giorni di ottobre frequentare la scuola mi interessava e divertiva molto. La maestra ci aveva distribuito i quaderni e le matite che dovevamo riconsegnarle puntualmente alla fine delle lezioni. Indossavamo tutte un vestito bianco con un fiocco blu, solo quando dovevamo fare gli esercizi ginnici o quando ci preparavamo per qualche rappresentazione, ci infilavamo una blusa bianca e una gonna nera era la divisa delle giovani balilla. Portare quegli indumenti mi uniformava agli altri bambini e questa condizione mi predisponeva al buon umore, non mi rendeva più emarginata dalla società e vittima della povertà. Mi sentivo finalmente inserita tra persone ben educate ed appartenenti ad un ceto medio borghese, che a quel tempo vedevo come un miraggio, una luce abbagliante, un caleidoscopio di colori che mi stordiva e affascinava. Quei giorni di ritrovata serenità ebbero vita breve. Per un motivo del tutto insospettabile, i miei compagni di classe cominciarono ad evitarmi. All'inizio il loro comportamento non mi infastidì né insospettì, in fondo non ero mai stata in contatto con tanti bambini e quindi la situazione mi sembrava del tutto normale. Ero ancora ben lontana dal comprendere le regole della società, i suoi schemi, le sue crudeltà. La situazione, già precaria, si aggravò una mattina quando la mia compagna di banco cominciò ad irritarsi per ogni gesto che facevo, finché non riuscendosi più a trattenere scoppiò urlando: «Non voglio più sedere in questo banco vicino ad un'ebrea!».
Quella frase giunse inaspettata e dolorosa come le percosse che mi dava mio padre. Mortificata e impaurita davanti a tutta la scolaresca, che mi guardava come se fossi un animale da circo, non riuscii a pronunciare una sola sillaba. La maestra ci venne vicino e, anziché spiegarci il significato di quella parola, cercando di ristabilire una certa armonia in aula, si limitò a far accomodare la bambina in un altro banco. Che cos'era un'ebrea? Una malattia contagiosa, una bambina molto povera, il vivere con la mia famiglia in una piccola casa? Non riuscivo a togliermi dalle orecchie il tono accusatorio di quella frase. Quando arrivai a casa mia madre non c'era, ma ebbi appena il tempo di ricacciare indietro le lacrime, raggelata dalla presenza di due persone indesiderate: mio padre e la sorella.
«Ah, ecco Teresina che ritorna da scuola, invece de aiutà la madre 'n casa a pulì e preparà quarche cosa da mangnà!», così mi salutò mio padre dopo tre mesi che mancava da casa.
«E tu che ce speri da na mocciosa che nun parla mai e passa tutto er tempo giocanno?», aggiunse zia Silvana, mentre si pettinava i capelli biondi ossigenati e non faceva altro che rimirarsi nello specchio opaco del comò, passandosi il rossetto sulle labbra carnose. L'entrata di mia madre mi sollevò notevolmente da una situazione piuttosto imbarazzante. Approfittai del momento in cui le spiegavano il motivo della loro visita, per allontanarmi lentamente, senza insospettirli e mi rifugiai sotto il letto. Qui detti sfogo alle lacrime che avevo trattenute fin troppo a lungo, che copiose scendevano sul viso bagnandolo completamente. Perché erano tutti così brutali con me? Perché non cercavano di trattarmi come una bambina normale, invece di rivolgersi a me come ad un piccolo animale selvaggio? Non ricordo quanto tempo trascorsi in quella posizione accovacciata, riuscii a riprendermi solo quando sentii mia madre che mi chiamava.
«Teresina, vieni qui, perché ti nascondi sotto il letto?».
Con la manica del grembiule mi asciugai gli occhi. I tratti del mio volto dovevano essere talmente contratti che subito mia madre aggiunse preoccupata: «Ma che succede, perché piangi?».
A fatica e dopo aver ripreso fiato, riuscii a formularle la domanda che mi tormentava, senza guardarla.
«Mà, che vor dì ebrea?».
Lei mi chiese subito dove e da chi avessi sentito pronunciare quella parola. Le riferii, singhiozzando l'episodio accaduto quella mattina a scuola. Intanto erano rientrati in casa anche i miei fratelli, che affamati, erano alla ricerca di qualcosa da mangiare nella vuota dispensa.
«Per prima cosa, una bambina educata non parla in dialetto, lasciando le parole a metà», mi rimproverò bonariamente mia madre, mentre mi prendeva in braccio, togliendomi i capelli davanti agli occhi. «E poi devi sapere che mio padre era ebreo, perché apparteneva ad una religione diversa dalla nostra, ma quando mia madre Alberta partorì la sua seconda figlia Anna, tuo nonno Vittorio Emanuele la sposò con il rito religioso cristiano, rinunciando alla sua religione. Quindi tu e i tuoi fratelli siete cristiani», mi spiegò brevemente. «Oggi tuo padre mi ha assicurato che ci sposeremo la settimana prossima e, da quel momento, riconoscendovi come i suoi figli legittimi porterete il suo cognome, in tal modo nessuno vi potrà più offendere», mi strinse un poco a sé, infondendomi tutto il suo affetto.
Mangiai silenziosamente una frittatina e, un poco più rassicurata, seguii i miei fratelli al campetto dell'oratorio. Quella sera, quando stanca me ne andai a letto, avevo già dimenticato tutto ciò che era avvenuto in quella nefasta giornata.
STAI LEGGENDO
VOGLIA DI FUGGIRE
Ficção HistóricaLa vicenda si svolge a Roma negli anni tra il 1928 e il 1950. Teresina, la primogenita, nasce alla fine degli anni Venti da genitori che non si sono sposati. Il padre violento e la madre debole e umile faranno da cornice alla sua infanzia avvolta da...