Lezioni di piano

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Era magia.
Tu eri magia.
Una magia di quella pura senza doppi  fini o oscure e dolorose conseguenze.
Eri l'essenza stessa di essa, capace di tenerla in vita e di darle uno scopo, di dare il significato alla parola stessa.
Eravate un tutt' uno, una simbiosi perfetta che non volevo avesse fine.
Le tue dita affusolate si muovevano senza sosta in una danza dolce e frenetica allo stesso tempo.
Il tuo corpo si prodendeva verso la tastiera come se fosse collegato ad un filo invisibile.
Piccole goccioline di sudore ti imperlavano la fronte nonostante ci fosse freddo essendo novembre.
Il tuo sorriso soddisfatto dalla melodia che tu stesso avevi composto illuminava di una luce invisibile, calda e soffusa la stanza tetra.
Rimasi in un' angolo nell'ombra, incantato e incapace di muovermi temendo di porre fine a quel capolavoro.
Chiusi gli occhi cercando di percepire ogni tua mossa, ogni sfumatura del tuo essere, di godere a pieno quel momento così raro e puro.
Quando li aprì le dita erano ferme, il corpo rilassato e non più teso come prima, un sorriso bianco che faceva da nuvola a quei due piccoli pezzi di cielo puntati su di me, così limpidi rispetto al cielo che ingrigiva il caotico scenario di Manhattan.
Mi irrigidí di colpo, il mio viso avvampó senza che potessi impedirglielo, sentì una strana e fastidiosa sensazione allo stomaco che si mescolava all'ansia e all'imbarazzo che piombó nella stanza togliendomi l'aria.
Tutto peggioró quando ti alzasti e mi tesi la mano, sulla maglietta verde mela che portavi potevo leggere il nome Will ricamato sopra.
Strinsi la mano cercando di non far trapelare le emozioni che stavano prendendo possesso di me e sentì solo una scossa elettrica risalirmi per tutto il braccio e inondarmi di calore.
Tolsi la mano portandomela dietro la schiena e mi feci segno di accomodarmi vicino a te.
C'erano due sgabelli vicini, fin troppo vicini per i miei gusti, ma decisi di ignorare questa mia considerazione e di concentrarmi solo sulla testiera.
Mi sedetti sullo sgabello più vicino ad essa e tu facesti la stessa cosa.
Potevo sentire il tuo respiro caldo sul collo, la tua mano appoggiata sul bordo del mio sgabello, i capelli biondi che mi solleticavano la tempia destra, e credevo di poter riuscire a sopportare tutto questo, ma divenne impossibile da sostenere quando la tua mano entró in contatto con la mia ancora una volta appoggiandosi sopra.
E credimi, cercai di non arrossire ancora, di non ritirare la mano e di ignorare tutto, ma c'era troppo contatto fisico per me, e non potevo sopportarlo.
Allontanai lo sgabello in modo che la tua mano si ritirasse, che il calore sul mio collo cessasse, che i tuoi capelli biondi non mi facessero più il solletico e finalmente pensai che potevo godermi la lezione in tranquillità, ma non avrei mai pensato di sentire un profondo vuoto dentro di me e per la prima volta dopo 13 anni, mi pentì di aver interrotto un contatto fisico.
Mi riscossi dai miei pensieri e finalmente iniziò la lezione.

Ero impacciato, non sapevo suonare neanche le scale o il do o appoggiare un dito in modo decente.
Avevo deciso di prendere lezioni di piano non per me, ma per onorare mia madre che ha sempre cercato di insegnarmelo, ma che se n'era andata troppo presto per riuscirci.
Quando arrivò l'ora mi disse che non le importava se non era riuscita a insegnarmelo, ma almeno avevo completato la sua opera più bella.
Mi accarezzó la guancia, chiuse gli occhi per l'ultima volta e seguì la morte congedandosi da questa vita.
Dopo altre due ore di duro allenamento ero riuscito a non fracassare i timpani a nessuno, a non far chiamare a nessun vicino la polizia per "disturbo alla quiete pubblica", e a imparare addirittura la prima scala.
Salutai Will con la stessa stretta di mano di prima sentendo sempre quello strano calore, e mi chiusi la porta alle spalle.
Non vedevo l'ora di suonare di nuovo e forse col tempo avrei capito il significato di quella strana sensazione alla bocca dello stomaco.

E le lezioni passarono più infretta del previsto.
Ero riuscito a trasformare quel suono da gatto strangolato alla porta in una pseudo melodia che si avvicinava all'inno alla gioia di Beethoven.
Mi ero abituato al brivido familiare quando la tua mano si appoggiava sulla mia, mi ero abituato a condividere con te lo sgabello quando ti sedevi dietro e potevo appoggiare la testa sulla tua spalla,  mi ero abituato a sentire il tuo fiato caldo sul mio collo e mi ero abituato ad averti accanto.
Mi ero semplicemente abituato ad amarti.
Ricordo quando arrivó Natale e avevi ricoperti il soffitto di vischio e lucine natalizie gialle, bianche e rosse.
Chissà perché avevi messo così tanto vischio... le ghirlande ti facevano schifo?
Appena aprì la porta un lungo vischio mi copriva la fronte, ci guardammo imbarazzati, bhe io ero imbarazzoto mentre tu sembravi calmo e deciso.
Mi presi per i fianchi avvicinandomi a te, vedevo le tue labbra rosee e carnose farsi sempre più vicine finché non si poggiarono delicatamente sulle mie facendomi esplodere il cuore.
Sgranai gli occhi e ricambiai ancora sotto shock.
Dai bozzoli che si erano annidati nel mio stomaco uscirono un migliaio di farfalle isteriche ed eccitate, o l'eccitato ero io? Vabbè fa lo stesso.
È inutile negare che quel giorno non usammo il piano, o meglio tu lo usasti per farmici sedere sopra e quella volta i vicini chiamarono veramente.
Per la prima volta dopo tredici lunghi anni ero felice, dopo tredici anni le ferite si stavano rimarginando, dopo tredici anni stavo vivendo veramente.
Ma sarà stato il fiato, la sfiga perenne, il fatto che Dio non mi volesse felice, ma alla fine accadde e non potei fare niente.
Era la vigilia di Natale due giorni dopo il nostro incontro.
Avevo pensato a lungo a quel momento, allo schiocco dei baci, al contatto con la tua pelle, alle emozioni provate.
Esatto, ero pronto a dirti ti amo, ero pronto a fare il grande passo, a dirlo per la prima volta alla persona giusta.
Bussai alla porta e mi aprì una signora di mezza età con lughi capelli ambrati, era in lacrime Will e piangeva per te.
Rimasi zitto, confuso, non sapevo chi fosse e volevo spiegazioni.
Mi disse che eri morto Will, che eri morto in un incidente, eri morto perché volevi venire da me e forse anche tu volevi dirmi il tuo ti amo.
A quelle parole sgranai gli occhi e invece di piangere feci una risata isterica, una di quelle che nascono per dolore, collera, per convicerti di aver sentito una barzelletta, che non era vero, che non era possibile, che non eri morto.
Scappai via, scesi le scale e andai in strada, gli occhi vuoti e vitrei e gridai, gridai forte eliminando l'ultimo pezzo di speranza presente in me.
Non partecipai al tuo funerale, non volevo piangere ancora perché non me avevo le forze, non volevo avere un'altra crisi isterica, ma soprattutto non volevo vedere il volto dell'uomo che ho ucciso.
Si Will, io ti ho ucciso, l'amore che provavi per me ti ha ucciso.
Ecco perché sono qui adesso, sul cornicione del palazzo, mentre le immagini di noi mi attraversano la mente come vecchie fotografie ormai ingiallite e dimenticate nel tempo.
Ma io non ti dimenticheró mai Will, dopo il mio incidente, dopo aver scoperto di essere diventato sordo, dopo tutto quello che avevo passato tu e solo tu eri riuscito a farmi sentire di nuovo la musica, a farmi provare di nuovo il brivido della melodia, a ricordarmi di essere ancora vivo.
E senza te, mi sento morto, ma costretto a vivere sopportando il dolore e la collera, come un fantasma costretto a restare sulla terra per ricordare i suoi errori.
Ma non farò questa fine, non più.
E con questo ultimo pensiero stacco le mani dal muro e mi butto nell'oblio.
Vedo la gente aprire la bocca senza poter udire le grida, vedo le dita puntate contro il mio corpo che cade inesorabile nell'infinito, vedo le macchine fermarsi e le mamma coprire gli occhi ai loro bambini, e poi... buio.
Nell'oscurità sento il  freddo braccio della morta che mi tende la mano e svanisco con lei salutandola come una vecchia amica.

Finalmente Will sentirai il "ti amo" che non ti ho mai detto.

I disagi del campo mezzosangue Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora