Capitolo uno

273 14 14
                                    




Adele fissava il muro della sua nuova camera. Quattro anonime pareti  bianche che sembravano stringersi lentamente ad ogni battito di ciglia. Il grande letto in ferro battuto, su cui era seduta, cigolava ad ogni minimo movimento e le lenzuola di lino emanavano uno sgradevole odore di naftalina. L'armadio in legno antico in fondo alla stanza, ancora vuoto, sembrava fissarla intimandole di disfare le valigie, prendendosi gioco di lei e della sua infelicità.

Una lacrima le scese lenta lungo il viso, mentre immagini della vita passata scorrevano nella sua mente; gli amici, la sua casa, il minuscolo letto ad una piazza di cui si era lamenta fino allo sfinimento che ora le sembrava cosi confortevole, i luoghi che l'avevano vista crescere, le sue amate colline dove adorava stendersi ore e ore a leggere, con la fitta e rigogliosa erba a farle da cuscino e la vastità del cielo azzurro come schermo su cui proiettare le vicende che leggeva nei libri. Tutto le mancava così tanto da toglierle il fiato, aveva dovuto abbandonare perfino Maya, la sua cagnolina, lasciandola nelle mani, poco affidabili, di sua cugina Susan.

Era così furiosa con i suoi genitori, senza chiederle nulla l'avevano sradicata dai luoghi della sua infanzia e portata in una nuova città, dove non conosceva nessuno, dove nulla le era famigliare. Aveva fatto tanta fatica, in passato, a farsi delle amicizie, la timidezza, fin da bambina, era stata la sua più grande debolezza. Gli arruffati capelli ricci che le ricadevano sul viso facendola sembrare un enorme funghetto, l'apparecchio per i denti e il fatto che passasse più tempo con il naso sui libri piuttosto che con i coetanei, avevano fatto si che gli altri bambini la emarginassero.

Al parco passava ore a guardare le bambine giocare, ma per quanto desiderasse unirsi a loro, a causa della sua insicurezza, finiva sempre per sedersi sotto ad un albero da sola.

Crescendo, però, aveva tolto l'apparecchio, aveva imparato a lisciare i capelli e a legarli in un enorme chignon sopra alla testa, scoprendo i meravigliosi occhi verdi e il suo delicato viso puntellato qua e là da lentiggini, si era fatta coraggio e, prendendo spunto da sua sorella Serena, aveva iniziato ad intrattenersi con le sue compagne, che con suo enorme stupore non la escludevano più ma erano addirittura contente di passare del tempo con lei.

Serena era un'esuberante bambina che, nonostante fosse di un paio d'anni più piccola, chiacchierava e giocava con chiunque; se ne andava in giro saltellando e salutando qualsiasi persona le si trovasse davanti,  sorrideva sempre e la sua allegria era contagiosa, sembrava così a suo agio in mezzo alle persone, al contrario di Adele che ne era sempre intimorita.

Persino il fratellino minore Ben era più espansivo di lei, un piccolo bambolotto biondo, con i capelli ricci e gli occhi azzurri che regalava sorrisi a tutti; era così adorabile che, tutte le volte che la accompagnava a scuola, suoi compagni gli correvano in contro per coccolarlo un po'.

Più di una volta si era chiesta come i suoi genitori fossero riusciti a generare tre figli così diversi fra loro. Sia per carattere che per fisionomia, lei una timida ragazzina rossiccia, sua sorella una solare bambina dai capelli corvini e il piccolo Benny un esuberante angioletto biondo dagli occhi azzurri.

Quanto avrebbe voluto avere il carattere forte dei suoi fratelli, era stata veramente dura e aveva impiegato così tanto tempo ad arrivare a quel punto che pensare di dover ricominciare tutto da capo la gettò nello sconforto.

Qualcuno bussò alla porta e Adele cercò di ricacciare indietro le lacrime.

«Va via. Non voglio vedere nessuno. E se è pronta la cena, non ho fame.», malgrado i suoi sforzi, la susa voce rotta l'aveva tradita perché, poco dopo, sentì dei passi allontanarsi nel corridoio.

Doveva essere stata sua madre e visto il suo atteggiamento aveva deciso di non entrare.

Abbracciò il cuscino e credendo di essere sola si abbandonò ad un pianto irrefrenabile. Era così scossa da non rendersi conto che qualcuno era entrato nella sua stanza, se ne accorse soltanto quando sentì il letto muoversi. Si alzò di scatto tentando di asciugarsi le lacrime e vide Ben, che la stava guardando con i suoi grandi e teneri occhioni.

«Perché sei triste Adele?» chiese Ben giocherellando con i peluche sparsi sul letto.

«Non mi piace essere qui, non mi piace questo posto e mi sento sola.»

«Ma tu non sei sola. Io e Serena non contiamo niente per te?» Le domandò risentito.

«Certo che contate per me, ma tu non puoi capirmi. Mi mancano i miei amici. I luoghi in cui siamo cresciuti.», mentre stava parlando vide spuntare dalla porta socchiusa sua sorella Serena.

«Bene riunione di famiglia quindi.» sbuffò Adele gettandosi indietro e sprofondando la testa nel cuscino. «Eppure avevo detto alla mamma che non volevo vedere nessuno».

Serena si stese accanto a lei sul letto e attorcigliando una ciocca dei suoi lunghi capelli neri le confessò che era stata lei ad aver bussato alla porta poco prima e avendo percepito quanto fosse triste, era andata a chiamare il piccolo Benny.

«A lui non dici mai di no, così ho pensato che ti avrebbe fatto piacere giocarci un pochino, che ti avrebbe distratta.»

Vedendo il volto scuro di sua sorella incalzò di nuovo «Perché non sei felice qui?» .

La testa di Adele era un turbinio di pensieri e avrebbe tanto voluto spiegare loro come si sentiva, il senso di ansia mista a frustrazione che provava e che quasi la soffocava da quando erano partiti. La paura che aveva di affrontare una nuova scuola, nuovi compagni, nuovi professori. E la pesante sensazione di essere inadeguata per quel luogo.

Spiegare che aveva impiegato così tanto per sentirsi finalmente a suo agio, che aveva finalmente dimenticato cosa volesse dire essere presa in giro per la sua goffaggine era impossibile. Come poteva far capire loro che aveva fatto così tanti sforzi per non essere rifiutata dalle amiche, che aveva versato così tante lacrime quando si era sentita un'estranea.

Non potevano capire, non sapevano cosa fosse la timidezza. Per lei, invece, ormai era un tabù. Essere attanagliati dalla costante la paura di non essere accettati.

Non trovò le parole, così si limitò ad un semplice «Devo solo abituarmi tesoro, mi passerà.»

Rimasero a lungo in silenzio, strette l'una accanto all'altra, mentre il piccolo Ben, ai piedi del letto, faceva lottare, in una guerra immaginaria, un piccolo leoncino con una ranocchia.














COMUNICAZIONE

Salve a tutti, sono nuova e mi piacerebbe confrontarmi con voi su questo nuovo libro che sto scrivendo, piano piano aggiungerò capitolo per capitolo e mi piacerebbe leggere le vostre impressioni sulla storia e sullo stile di scrittura.

Silvia

Il Meglio di MeDove le storie prendono vita. Scoprilo ora