3. You say things I need to hear

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«So when your tears roll down your pillow like a river
I'll be there for you
I'll be there for you
When you're screaming, but they only hear you whisper
I'll be loud for you
But you gotta be there for me too.»

— There for you, Troye Sivan ft. Martin Garrix.

Forse è proprio vero che per rendersi conto dei propri sbagli a volte è necessario arrivare a un punto di non ritorno.
Bisogna toccare il fondo, per capire per cosa valga la pena vivere e per cosa no.
La mente gioca brutti scherzi spesso ma anche il corpo ci mette del suo; basta un attimo e hai già perso te stesso.
Basta perdere la lucidità per annullarsi e per distruggersi?

Può una persona logorarti così a lungo e così profondamente?

Potrò mai ricucire le mie ferite? O forse sono così ampie che ormai non c'è più nulla da fare?

Potrò mai, un giorno, capire o perlomeno avere un accenno, un minimo assaggio della felicità? Del significato di essere felici?

Forse lo ero una volta, ma mi sembra passato così tanto tempo che non riesco neanche più a metterli a fuoco quei ricordi, quelle sensazioni, perché quando arriva il dolore ti acceca.
Il dolore ti azzera. Resetta i dati della tua memoria e non potrai provare più alcuna emozione al di fuori del dolore ed è per questo che non saprai più che sapore aveva la felicità.

***

Non avevo più il controllo del mio corpo. Non riuscivo più a muovere un muscolo come volevo e finalmente provai ad aprire gli occhi.
E in quell'istante realizzai: capii che non ero a casa mia, non ero steso sul mio amatissimo letto, ma mi trovavo su quello di un asettico e triste ospedale.
Come ci sono finito qui, in un ospedale?
Non ho fatto un incidente, non ho bevuto fino ad arrivare al coma etilico e non ho fumato nulla.
È come se avessi un vuoto e l'unica cosa che vorrei fare ora è andarmene.
Sono legato a dei fottutissimi fili che mi incatenano al letto, c'è l'alba e si può scorgere dalla persiana della finestra alzata a metà, la quale mi permette di ossevarmi un po' intorno e di studiare la mia stanza.

Solo dopo qualche minuto mi accorsi di non essere solo; poco più in là c'era un altro letto, un uomo sicuramente sui cinquant'anni dormiva profondamente.

Sbuffai e provai a rigirarmi e a cambiare posizione senza risultati. Spazientito, decisi di togliermi quei maledetti fili e tornare a casa mia, una volta per tutte.

Ma fu sufficiente un rumore, il misero avvertimento della porta che si stava aprendo, per immobilizzarmi completamente e puntare gli occhi sulla figura che stava lentamente entrando e cautamente chiudeva la porta senza provocare alcuno scricchiolio.

Sentii il respiro mozzarsi in gola, sbarrai gli occhi e osservai la persona avvicinarsi al mio letto, non ancora consapevole del fatto che fossi sveglio.

Si sedette lentamente su una poltroncina accanto a me, portandosi un bicchiere di ciò che l'odore mi faceva capire fosse caffè.

«È buono?» Chiesi improvvisamente, ma con un tono di voce basso e roco, per non svegliare l'altro uomo.
Dopo aver udito la mia voce, sobbalzò sul suo posto e notai qualche schizzo di goccia di caffè caderle sulla maglietta.
Immediatamente posò lo sguardo su di me, confusa, sorpresa e spaventata.

«Harry, ti sei svegliato!» Esordì, alzandosi immediatamente dal suo posto. «Devo subito andare a chiamare l'infermiera.» Affermò con sicurezza, già con l'intenzione di uscire dalla stanza a passi veloci e sicuri, ma fu sempre la mia voce, a fermarla, a bloccarla, a non lasciarla andare.

«No.» Mi affrettai a dire. «Aspetta un attimo.» A quel punto voltò completamente il viso verso di me, osservandomi con un'espressione interrogativa.
«Cosa ci fai qui, Heisel?»

La vidi deglutire e boccheggiare leggermente: non se l'aspettava.
Non se l'aspettava una domanda così schietta, diretta, sincera.
Ma avevo il bisogno di chiederglielo e vederla vacillare mi destabilizzava ancora di più.
Indossava una camicia bianca a fiori e dei jeans blu chiaro che le fasciavano le gambe in maniera perfetta.
I capelli arruffati in uno chignon improvvisato mi facevano venire voglia di andare da lei e aggiustarle quelle ciocche e quei ciuffi fuori posto.
Ma sono ancora legato a questo letto.

«Io... volevo solo sapere come stavi.» Sussurrò.

«Sto benissimo.» Affermai più che sicuro.
«Sinceramente non so neanche cosa ci faccia qui e come ci sia finito. Me ne torno a casa.» Annunciai, provando a tirarmi su con la schiena, anche se avvertivo tutti i muscoli indolenziti e deboli.

«Cosa stai facendo? Stenditi subito!» Sibilò raggiungendomi e assumendo un'espressione accigliata e contrariata.
«Hai almeno idea di quello che ti è successo?»
La guardai e non negai, ma non feci neanche un cenno di consenso.
Heisel mi prese le gambe che erano a penzoloni sul bordo del letto e mi aiutò a stenderle lungo il letto, facendomi di nuovo distendere la schiena, controllando accuratamente che nessun filo si fosse staccato.
Quando finalmente si accertò che tutto fosse al suo posto, puntò gli occhi nei miei.
Avrei voluto dirle qualcosa, qualsiasi cosa, ma forse era la situazione, forse per il fatto che per la seconda volta ci eravamo incontrati in un posto che mai avrei immaginato, che le mie labbra non ebbero la forza di far uscire alcun suono.

«Hai avuto un attacco epilettico, Harry.» Esordì Heisel dopo un paio di minuti di silenzio.
I miei occhi saettarono nei suoi, i quali mi evitarono abilmente.
Le sue parole mi rimbombarono nella mente, un suono che invece che scemare aumentava sempre di più, si faceva sempre più forte, un rumore sempre più assordante.

«Cosa stai dicendo?» Sussurrai con un filo di voce leggero e roco, tutto ciò che rimase della mia voce.
Non avevo mai avuto un attacco epilettico in tutta la mia vita.
Non ricordo neanche di averlo avuto.
Non ricordo nulla.

«Eri dal signor Donnovan, stavi avendo una normalissima seduta, quando a un certo punto ti sei sentito male, non respiravi più bene e poi hai avuto degli spasmi ed il signor Donnavan ha chiamato subito l'ambulanza, così mi ha detto lui. Poi i dottori hanno appurato che hai avuto un attacco epilettico.» Mi passai una mano tra i capelli, ricordo di non essermi sentito bene in quello studio, ma non avrei mai pensato a questo.

«Chi te l'ha detto che ero qui?» Le chiesi. Fu la sola e unica cosa che riuscii a chiederle.

«Donnovan. Sarei dovuta andare anche io da lui ieri pomeriggio sul tardi, ma ha annullato tutti gli appuntamenti e mentre mi avvertiva, si è lasciato anche sfuggire il motivo per cui non si poteva fare la seduta, e sono corsa subito qui.»

«Grazie.» Le dissi, chiudendo gli occhi, tutte queste informazioni inaspettate mi hanno scosso abbastanza e mi sembra di non avere neanche la forza per respirare.
Mi stesi ancora un po' sul letto, allungando le braccia.
Avvertii un tocco leggero e delicato posarsi sulla mia mano, delle dita che cautamente mi accarezzavano, il suo pollice disegnava dei cerchi sulla mia pelle, non mi stuferei mai di godere di questo contatto.

«Non ti avrei mai lasciato da solo.» Ammise Heisel, la sua voce arrivò bassa ma chiara al mio orecchio, una promessa solo per me, una frase che celava così tante cose.

Perché nonostante tutto, lei c'era sempre per me, nascosta in un angolo, pronta a uscire allo scoperto nel momento peggiore, nel momento in cui avrei più bisogno di lei.
Ma il problema è che io avrei sempre bisogno di lei, costantemente, ininterrottamente.
Ma lei non riesce a capirlo, o forse non vuole capirlo.

L'arte di lasciare andareDove le storie prendono vita. Scoprilo ora