7. Con addosso solo i tuoi demoni

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«Too much time, losing track of us
Where was the real?
Undefined, spiraling out of touch
Forgot how it feels

All the messed up fights and slamming doors
Magnifying all our flaws
And I wonder why, wonder what for
It's like we keep coming back for more.»

— Scared To Be Lonely, Martin Garrix ft. Dua Lipa.

Heisel deglutì e chiuse gli occhi.
Era nuda — o quasi — di fronte a me e io non riuscivo a smettere di fissare la sua spalla destra.

«Harry...» Le portai l'indice sulle labbra e, dopo un tempo che mi era sembrato infinito, posai nuovamente i miei occhi nei suoi.
Deglutì un copioso fiotto di saliva e la vedevo combattere contro se stessa. I suoi occhi ne erano la prova schiacciante.

«Non dire niente. Non c'è bisogno che tu dica niente.» Successivamente il dito che stava sfiorando le sue labbra scese e tutta la mia mano iniziò ad accarezzare il suo collo, fino ad arrivare a quel punto.

Fino ad arrivare alla sua spalla destra.

Potevo sentir nascere i brividi sulla sua pelle dopo che avvertiva il mio tocco e questa consapevolezza mi riempiva il cuore di una strana sensazione, mi faceva capire che nonostante tutto, io ancora qualche effetto su Heisel lo sortivo.

Continuai a fissare quel punto e, dopo qualche altro istante di esitazione, lasciai che le mie dita si appoggiassero lì. Proprio lì.

Vi passai il pollice sopra un paio di volte e, in seguito, ne tracciai il contorno, ormai quasi ipnotizzato da quella visione.

Perché ciò che stavo toccando non era un semplice tatuaggio, era il simbolo che rappresentava Heisel in tutto e per tutto.

Perché quella mezzaluna che ha voluto imprimere sulla sua pelle per sempre, è il riflesso della sua anima, lo specchio dei suoi pensieri, la rappresentazione della sua personalità.

Io lo sapevo, l'ho sempre saputo ma non l'ho mai voluto ammettere a me stesso e lei non ha mai avuto il coraggio di farmelo capire direttamente e di parlarmene.
Io sapevo che lei si sentisse così: incompleta. Si sentiva incompleta proprio come quella Luna, credeva di non essere abbastanza, credeva che nessuno potesse mai capirla a pieno ed era per questo che non mostrava mai tutta se stessa, perché sapeva che non sarebbe stata compresa.
O perlomeno non appieno, non a fondo come meritava.

O forse non mostrava mai tutta se stessa per paura di essere giudicata, di non essere apprezzata, di essere umiliata.
Perché sapeva che dopo non le sarebbe rimasto più nulla.
Ed era per questo che si aggrappava ferocemente e con tutte le sue forze a quel briciolo di se stessa che ancora era intatto.

Ma lei non aveva capito nulla.
Ora io ho visto come si osserva, cosa pensa di se stessa e sono riuscito a comprendere molte cose, forse più di quanto non abbia fatto in quattro anni che la conosco.
Ma non le permetterò di distruggersi, non di nuovo, non sta volta.

«Mi fai incazzare così tanto Heisel, non ne hai idea. Avrei voglia di spaccare tutto.»

Voglio spaccare quelle tue fottute convinzioni del cazzo, quei pensieri orrendi che hai verso te stessa e quell'odio puro che ti sta mangiando viva. Che ti sta prosciugando.
Me lo prenderei io se potessi.

«Harry, smettila. Non mi sento a mio agio. Ho fatto una scenata prima, non mi sono controllata, ora basta. Devo tornare a casa.»

Avevo ancora le dita appoggiate sulla sua pelle, sulla sua mezzaluna, quando lei mi prese la mano e delicatamente mi allontanò.
Io fui più veloce di lei e in un istante, mi posizionai dietro la sua schiena, appoggiai il mento nell'incavo del suo collo e inclinai leggermente il capo, per poterle sussurrare all'orecchio.

«Non tornerai a casa, non ancora.» Sussultò leggermente e deglutì in modo nervoso, iniziò a respirare più velocemente e il suo petto iniziava ad alzarsi su e giù rapidamente.
«Il Signor Donnovan potrà darti tutti i consigli che vuoi, ma io ti conosco meglio di chiunque altro.» Affermai.

«Lo so.» Asserì semplicemente. Lo sapevo io, lo sapeva lei. Non aveva senso negarlo.
Non mi stava facendo domande, perché sapeva benissimo che le risposte sarebbero arrivate, senza un suo incitamento. Era consapevole del fatto che avrei fatto di testa mia, come sempre d'altronde.

Mi allontanai da lei, le diedi le spalle e sentivo i suoi occhi forarmi la pelle, in quei pochi e brevi attimi percepivo i suoi occhi toccarmi, graffiarmi e mordermi.
Mi sentivo lacerato solo attraverso il suo sguardo, mi sentivo diverso se sapevo che era lei a guardarmi, sentivo che mi mangiava coi suoi occhi, mi inglobava dentro di sé e poi mi rigettava, creando una persona diversa, una persona nuova.
Lei mi cambiava, mi plasmava, mi modellava.
O forse ci modellavamo a vicenda.
Forse anche io sono riuscito a cambiare lei, almeno un po'.

Arrivai davanti all'armadio della mia camera e aprii un'anta; poi, finalmente, mi concessi il lusso di posare nuovamente le mie iridi in quelle di Heisel, che ovviamente erano già su di me.

«Vieni.» Le dissi muovendo il capo in direzione dell'armadio.
Lei mi rivolse un'occhiata indecifrabile ma non si oppose e si posizionò davanti all'anta aperta.

Non mi misi dietro di lei, volevo aspettare un po', volevo studiare la sua reazione, anche solo un gesto avrebbe potuto significare molto.
Ma più passavano i secondi più non capivo, non capivo la sua impassibilità.
Si limitava a guardare il riflesso del suo corpo nudo dallo specchio di fronte a sé, dopo un momento di esitazione, decise di far vagare i suoi occhi su tutta la sua figura, ma il suo sguardo era glaciale mentre si osservava.
Non esprimeva nulla.
Forse era proprio questo il problema.

Ma ciò che accadde in seguito non mi permise di soffermarmi a riflettere su altro.
Improvvisamente si portò una mano alla bocca e l'altra sullo stomaco, fu questione di un attimo che come un fulmine la vidi correre rapidamente verso il bagno e un momento dopo era calata sul water, a gettare quel peso che si portava dentro, a buttare fuori qualcosa di cui ha provato a parlarmi, ma che la stava divorando da così tanto tempo che ho paura che ormai l'abbia contaminata ovunque, ho paura che non basti farlo uscire una volta.

Le presi i capelli mentre le tenevo la fronte, lei vomitava e piangeva.
Non avevamo fatto in tempo neanche ad accendere la luce e non avevo nemmeno più la minima idea di che ore fossero, ma non mi sfuggirono quei segni lucidi sul volto, che le contornavano le gote.
A volte può capitare che per lo sforzo, la stanchezza, la fatica e il dolore dei forti crampi, questi causino delle lacrime.

Ma queste lacrime appartenevano a qualcos'altro, lo stomaco non le bruciava perché aveva mangiato qualcosa di strano e non aveva le convulsioni perché aveva la febbre.

Lo sapevo io, e lo sapeva anche lei.

L'arte di lasciare andareDove le storie prendono vita. Scoprilo ora