꒰ ᶜⁱⁿᵠᵘᵉ ꒱ؘ ࿐ ࿔*:・゚

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Dazai non era solito ubriacarsi pesantemente, a dire il vero erano pochissime le volte in cui ci era riuscito. La prima, ricordava bene Tomie, era stata per testare quanto riuscisse a reggere l'alcol. Anche quella volta gli ci vollero quasi la metà dei bicchieri di whisky e sake a testa che beveva di solito per sbronzarsi nemmeno tanto. Lui aveva quindici anni allora e lei tredici.
Quella sera doveva aver esagerato pesantemente, rifletté la ragazza guardando il modo impacciato con il quale il mafioso si stava muovendo in quel momento, mettendo un piede davanti ad un altro come se le sue gambe fossero state private delle ossa e la forza di gravità lo stesse spingendo per terra.
Il suo viso era rosso, l'espressione perennemente sorniona formata da un sorriso inebetito e gli occhi socchiusi.
«Ti dico che sto bene Tomie.» gemette Dazai mentre la suddetta lo trascinava via dalla strada tenendo un braccio attorno alla sua vita e quello del ragazzo era avvolto sulle spalle di lei.
«Ho bevuto poco, lo giuro.»
Un conato di vomito lo costrinse a fermarsi e piegarsi per rigettare l'alcol assunto sul ciglio della strada. Era buio e non passavano macchine. Chissà che ore erano si chiese la ragazza mentre distoglieva lo sguardo con un sospiro rassegnato.
«Ci sei andato giù pensante...» mormorò più a se stessa che a Dazai mentre si rimettevano in marcia.

L'appartamento di Tomie era di modesta grandezza, ma disordinato come uno stanzino di piccola taglia in cui accatasti tutto ciò che non ti serve e ti riprometti di buttare al più presto.
Matite, pennelli, fogli di carta strappati e intatti, bottiglie di alcol vuote e libri giacevano abbandonati sul pavimento mentre al centro della stanza sostava paziente un cavalletto con una tela bianca in attesa di essere riempita e vivacizzata con qualche ritratto, paesaggio o anche solo colori senza una forma precisa.
Ripromettendosi ancora una volta di mettere tutto in ordine Tomie salì con cautela le scale che conducevano al piccolo balconcino che ospitava un letto a due piazze, una minuscola scrivania con sedia girevole, un comodino e un armadio; il tutto affacciava sul salotto.
Senza nemmeno preoccuparsi di fargli togliere le scarpe, Tomie fece distendere Dazai sul materasso mentre lui continuava a protestare e blaterare cose senza senso. Esausta, si lasciò andare sulla sedia per riprendere fiato. Fece per appoggiare il gomito sulla scrivania dietro di lei, ma lo ritrasse quasi di scatto quando si ricordò che qualche ora prima, in un raptus di isteria, aveva preso tutti i colori a olio e li aveva spalmati sul legno una volta color mogano, ma ora indefinito tra il grigio sporco e il viola scuro. Si massaggiò le tempie cercando di calmare il fastidioso pulsare quando la voce lamentosa di Dazai le fece alzare lo sguardo.
«Tomie-chaaaaaaan~»
Tomie non batté ciglio sperando quasi di esserselo immaginato.
«Toooomieeee.»
«Cosa c'è?»
La voce le uscì dalla gola come un rantolo rassegnato.
Dazai si lamentò per un po' tentando di mettersi a sedere, ma cadendo nuovamente sul materasso.
«Sei una... guastafeste.» pronunciò infine battendo un pugno sul letto.
Tomie inarcò un sopracciglio.
«E tu sei ubriaco.»
«Non è veeeero. Sono solo... stanco.»
«Sicuramente.»
Gli occhi iniziarono a farsi pesanti. Tomie si intimò di restare sveglia. Doveva prima accertarsi che Dazai stesse bene e in quel momento non lo era per niente.
Seguì il silenzio.
Per un attimo pensò che si fosse addormentato.
«Tomie.»
La sua voce era più ferma sta volta, pensò mentre si agitava sulla sedia muovendo il piede sul pavimento come se stesse calpestando una cicca.
«Sì?»
«Perché non riesco mai a morire?»
Lo fissò impassibile. La sagoma di lui si sollevò dal letto mettendosi prima a sedere, poi si sporse in avanti prendendosi la testa tra le mani.
«Possibile che debba fallire anche in questo?»
Tomie non disse nulla, le mancavano le parole, l'aria sembrava essersi rarefatta improvvisamente. Si sentì come un palombaro sul fondo del mare al quale era appena terminato l' ossigeno. Vide se stessa vagare nel nulla in una dolce apnea prima che i suoi polmoni avvertissero la mancanza d'aria.
La stanza era improvvisamente troppo opprimente e la disperazione che aveva tentato invano di soffocare era troppo fitta e la stava lentamente riempiendo, quella stessa disperazione che qualche ora prima l'aveva fatta accasciare contro il muro.
«È tutta colpa mia... solo mia. Solo mia. Solo mia!» quasi gridò Dazai.
Tomie ricordava di aver pianto. La pacifica sensazione di vuoto che aveva provato in seguito era ancora presente in lei. Era come se una mano invisibile l'avesse svuotata completamente.
Aveva distrutto un paio di disegni, imbrattato quella scrivania e lanciato matite e vestiti al piano di sotto, si era presa la testa tra le mani tentando di calmarsi, di far rallentare il respiro troppo accelerato. Le sarebbe venuta una tachicardia.
«Sono un buono a nulla! Odasaku sarebbe ancora qui se solo non avessi perso tempo andando da Mori! Sono un fallito! Non era lui che doveva morire! Sono io, cazzo! Io devo morire! Io voglio morire! Io e solo io!»
«Dazai, smettila.»
Tremava come un cane. Alzò la testa verso Tomie, gli occhi rossi e lucidi, segno che buona parte della sbronza era ancora lì.
Tomie lo guardò impassibile.
«Come cazzo fai. Dimmi come cazzo fai ad essere così tranquilla!?»

𝐏𝐚𝐫𝐚𝐥𝐥𝐞𝐥 || 𝐷𝑎𝑧𝑎𝑖 𝑂𝑠𝑎𝑚𝑢Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora