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Aprii velocemente la porta di casa nella speranza di salvarmi dall'aria fredda che mi attanagliava le viscere e mi tuffai dentro.
Il calore proveniente dal camino acceso nel salone mi provocò un senso di sollievo alle mani, alle quali stavo ormai per perdere la sensibilità.
Appesi il cappotto all'attaccapanni all'ingresso e, lentamente e cercando di fare il meno rumore possibile, mi diressi verso le scale.
Volevo solo chiudermi tra le quattro mura della mia camera e riflettere ma ovviamente mia madre non era d'accordo con la mia scelta, tanto per cambiare.
"Sei a casa" disse spuntando davanti la porta della cucina e appoggiando una spalla ad essa.
L'espressione sul suo viso era sempre la stessa, non cambiava mai, almeno quando guardava me.
I suoi occhi azzurri così dolorosamente familiari erano freddi e tristi, ed entrambe sapevamo perché.
Nel corso della mia vita non avevo mai visto gli occhi di mia madre riempirsi d'amore nel guardarmi, non era fiera di me e per lei rappresentavo un peso.
Non ero mai stata una persona facile da gestire ed ero consapevole di aver dato tante belle gatte da pelare ai miei genitori nel corso degli anni, cosa che loro non erano mai riusciti a sopportare.
Ero la figlia di due famosi avvocati della Louisiana, persone composte, aggraziate e ambiziose.
I miei genitori erano amanti dell'ordine e amavano avere il controllo su qualsiasi cosa, anche se non gli spettava.
Il mio destino era già stato scelto da loro ancor prima che io potessi compiere i miei primi passi su questa terra, ed il fatto che nella mia vita nulla fosse andato come loro avevano deciso li mandava fuori di testa.
Durante il periodo della mia adolescenza in casa nostra c'erano state diverse lotte tra noi ma alla fine, alla soglia dei miei 18 anni, avevano finalmente smesso di lottare arrendendosi alla realtà.
Io non sarei mai stata come loro mi volevano.
Ero una delusione per i miei genitori sì, lo ero anche per me stessa, ma ero in parte fiera di me per non essere diventata qualcuno che non ero.
"Già" risposi sbrigativa.
Ripresi a salire le scale, stavolta più in fretta, nella speranza di evitare qualsiasi discussione potesse aprirsi con lei, ma fallì.
"Com'è andato l'incontro?"
Per la prima volta sembrava realmente interessata a qualcosa che riguardava la mia vita.
Mia madre non era una donna cattiva e lo sapevo, non avevo mai scambiato il suo essere severa con la cattiveria.
Infondo capivo la sua delusione, neanch'io avrei accettato mia figlia se avesse condotto la mia stessa vita.
Avrei affrontato la situazione in maniera diversa, questo era chiaro, ma non potevo biasimarla.
"Bene" dissi con posa enfasi e lei se ne accorse.
"Sicura?"
"Anche se così non fosse cosa ti cambierebbe?" il mio tono era tagliente, anche un sordo se ne sarebbe accorto.
Non volevo ferirla ancor di più, ma non riuscivo a controllarmi quando si trattava di lei.
Mi metteva un'insolita rabbia dentro, mi faceva ribollire il sangue nelle vene.
Non la biasimavo ma non potevo sopportare di essere tratta come una tossicodipendente senza speranza di ripresa dalla donna che mi aveva messo al mondo.
Sapevo che lei era convinta che ormai fossi un cadavere vivente e che queste domande e questo falso interessamento erano solo una facciata, una messa in scena per nascondere quella che era la sua verità.
I suoi occhi si sgranarono nel sentire le mie parole e gonfiò il petto, segno che stava per scoppiare un litigio che difficilmente sarebbe stato placato pacificamente.
"Credi davvero che non mi importi, Jade?"
Puntai i miei occhi nei suoi, doveva vederlo che non avevo paura di affrontarla.
"Ne sono fermamente convinta."
"Credi che non mi importi della vita della mia bambina?"
"Smettila!" urlai. "Devi smetterla! Non ti è importato nulla di me dal momento in cui ho deciso di non diventare come te.
Non c'è bisogno che tu finga con me, ti conosco benissimo, Marie."
"Non sbattermi in faccia il tuo solito vittimismo!" urlò a suo volta mia madre.
"Ti rendi conto che ti smentisci da sola? Non capisco davvero perché continuo a perdere fiato con te."
Mossi un passo per continuare a salire le scale di quella stramaledetta casa ma venni nuovamente bloccata dalla sua voce.
"Dovrei farmi andare bene che mia figlia sia una cocainomane?" sussurrò.
Quando mi girai la trovai con lo sguardo basso a fissare un punto indefinito del pavimento, non aveva la forza di guardarmi negli occhi mentre pronunciava queste parole.
Mia madre era una debole.
"Non sono una cocainomane, mi faccio di morfina" puntualizzai in cerca di una sua reazione.
"Sei una tossicodipendente!" ringhiò facendo scattare la testa vero destra.
"Sì mamma, lo sono, ma ti sei mai chiesta almeno una volta perché sono arrivata a questo punto?! Te lo sei mai chiesta una sola cazzo di volta?!" urlai ancora sull'orlo dell"esasperazione.
"Hai mai pensato che al posto di puntare in continuazione il dito contro di me avresti potuto aiutarmi?
Hai mai pensato che forse tutto questo è anche colpa tua?"
"Non osare dare la colpa a me, Jade.
Hai scelto tu chi diventare e cosa farne della tua vita, le conseguenze devi piangertele da sola" disse con tono falsamente tranquillo.
Le sue mani tremanti la tradivano però.
"Scaricare tutta la colpa sugli altri e non esaminare mai se stessi è il tipico atteggiamento di chi sa di avere degli scheletri nell'armadio, Marie."
"Cosa vorresti dire con questo?"
Mia madre alzò finalmente lo sguardo verso di me e trovò il mio sorriso tirato.
"Al posto di venire a cercare delle risposte da me fatti un esame di coscienza.
Prova a sederti un attimo di più sulla tua amatissima poltrona in pelle e rifletti.
Pensa a tutto quello che è successo in questi anni, a tutto ciò che abbiamo vissuto e a come hai affrontato le situazioni.
Fatti due domande e, se ci penserai su bene, sono certa che troverai le risposte che cerchi.
Non sono l'unica qui ad avere dei problemi" affermai.
Gli occhi di mia madre si incupirono e li puntò finalmente nei miei.
"Cosa avresti voluto che facessi?"
Qualunque persona sarebbe stata tratta in inganno dal suo tono di voce, avrebbe potuto pensare che fosse pentita, ma io conoscevo mia madre come le mie tasche e sapevo che era tutto finto.
Sapevo che dietro quel tono ferito si nascondeva una persona sicura di se stessa, convinta al cento per cento che lei fosse pulita, che niente di tutto questo la riguardasse minimamente, solo che voleva sentirselo dire.
"Avresti dovuto aiutarmi.
Se avessi avuto una vera madre al mio fianco in quei momenti non saremmo neanche qui a parlare di tutto questo.
Solo che sono stata lasciata da sola, me la sono dovuta cavare con le mie forze e non ce l'ho fatta.
Ecco perché sono arrivata a questo punto, mamma.
Perché sono stata abbandonata a me stessa, sono stata lasciata da sola davanti a qualcosa più grande di me" sputai via le parole come se bruciassero sulla mia lingua.
"Io non avrei potuto aiutarti" disse piano.
Per la prima volta neanche lei sembrava convinta delle sue stesse parole.
"Eri l'unica in grado di aiutarmi" risposi con un finto sorriso.
Una nube nera piombò sul viso di mia madre, i suoi tratti fini diventarono improvvisamente più duri.
"Non potevo sporcarmi le mani con te, non in quel momento, lo capisci?!"
Quelle parole arrivarono al mio petto come cento coltellate.
Per un momento mi sentii mancare il respiro e la testa iniziò a girarmi, poi mi ricordai di chi ero e che, a prescindere da tutto, io c'ero ancora, che le andasse bene o meno.
E non mi sarei scusata per questo.
Ero arrivata al limite e sarei andata via di lì quel giorno stesso, c'era solo un'altra cosa che volevo sapere.
"Quella notte" iniziai ma venni immediatamente interrotta da lei.
"No, Jade."
Non la ascoltai e continuai a parlare.
"Quella notte, quando hai saputo che Jackson era morto ed io invece ce l'avevo fatta, qual è stato il tuo primo pensiero?"
Ci guardammo negli occhi a lungo e mi accorsi immediatamente che da quelli azzurri di mia madre iniziarono a sgorgare lacrime irrefrenabili.
Anche a me mancava tanto mio fratello, sentivo la sua mancanza in ogni cosa che facevo, ogni secondo della mia vita.
"Puoi dirlo, va bene così" sussurrai.
Sembrava spaventata dai suoi stessi pensieri ma alla fine capì, lo so che lo capì.
Così lo disse, non ci furono tentennamenti o indecisioni, disse la verità.
Una verità che da ormai due anni tutti sapevamo ma che nessuno aveva mai avuto il coraggio di dire, almeno fino a quel momento.
"Avrei preferito che fossi morta tu al suo posto."
Quella confessione mi liberò, non c'era più niente che mi teneva in quella casa.
Le sorrisi per poi correre finalmente al piano di sopra, lasciandola da sola con i suoi pensieri.
Penso che si odiasse per ciò che aveva appena ammesso, e forse era giusto così.
Mi diressi in fretta in camera mia e mi chiusi la porta alle spalle, sbattendola forte.
Estrassi la valigia dal mio armadio e cominciai a riempirla con tutti i miei vestiti, non che ne avessi poi così tanti, non ero mai stata molto legata alle cose materiali.
Presi tutto ciò che di indispensabile c'era all'interno della camera.
Dopo aver preparato la valigia recuperai il mio vecchio zaino scolastico e lo riempii con le cose più importanti.
Caricabatterie, cuffie, qualche libro e un'agenda con penna annessa.
Me lo caricai in spalla e con la mano destra afferrai il manico del mio enorme trolley.
Mi trascinai fuori dalla stanza con tutti i miei averi e mi affettai per le scale.
Rischiai di rotolare giù per ben due volte ma rimasi in piedi come i veri guerrieri.
Mia madre era ancora davanti la porta della cucina, lo sguardo ancora perso che però puntò su di me quando vide la mia valigia.
Mi guardò interrogativa ed io le sorrisi di nuovo, sorpassandola.
Con non poca fatica arrivai all'ingresso e indossai il mio parka.
La donna che mi aveva messa al mondo continuava a fissarmi ma stavolta non aleggiava più sorpresa sul suo viso, solo dolore.
Un profondo dolore che lei stessa si era inflitta.
La bloccai prima che potesse aprire bocca, riprendendo in mano la valigia e il mio zaino e aprendo la porta di casa.
Prima di chiudermela alle spalle la guardai un'ultima volta, non pensavo che ci saremmo viste molto presto e la cosa mi rendeva quasi felice.
"Addio, Marie" dissi facendole l'occhiolino e chiudendo la porta di casa con un tonfo.
La sentii piangere ma non me ne curai, era giusto che si sfogasse e capisse cosa aveva combinato.
Come lei stessa aveva detto poco prima, ognuno si doveva piangere le conseguenze delle sue azioni.
Mi catapultai contro la mia auto e gettai il trolley nel portabagagli.
Entrai dal lato guida e adagiai il mio eastpack nero sul sedile del passeggero.
Misi in moto e mi diressi verso una meta ben precisa.
Mentre guidavo i pensieri però non mi davano tregua e continuavano a tormentare la mia mente.
Sapevo di aver fatto la cosa giusta, anzi, ero consapevole che sarei dovuta andar via tanto tempo prima.
Ne avevo sopportate tante ma quella confessione fu la goccia che fece scoppiare un vaso già traboccante.
L'idea che mia madre avrebbe preferito veder morire me al posto di mio fratello mi faceva male al cuore ma non così tanto, perché lo sapevo già.
Quella notte quando lei arrivò in ospedale i nostri occhi si incrociarono immediatamente e non potrò mai dimenticare l'espressione che vidi sul suo viso.
Non potrò mai dimenticare le sue urla che squarciavano il silenzio mentre gridava "no! Non può essere!"
C'erano stati dei momenti in cui anch'io avrei preferito essere morta al posto di Jackson, anzi, se proprio dovevo dirla tutta l'avevo sempre desiderato.
La situazione in casa dopo la sua morte peggiorò drasticamente ed i miei rapporti già disastrosi con mia madre sfociarono in odio da parte sua nei miei confronti.
Avevo resistito tanto ma ad un certo punto la corda si spezza e devi mollare la presa.
La mia si era spezzata già da tempo ma io ero rimasta lì, con un pezzo di essa tra le mani nella vana speranza che un giorno lei venisse da me con l'altra metà dicendomi "vieni qui, facciamo un nodo e ricominciamo."
Ma mia madre la sua metà di corda l'aveva bruciata ed io avevo finalmente lasciato andare.
Arrivai di fronte al familiare palazzo bianco e uscii in fretta dalla macchina.
Recuperai tutti i miei averi e mi affettai verso l'ingresso.
Trascinai tutto per le scale e con un po' di fatica riuscii a tenermi in piedi.
Quando arrivai davanti alla porta bussai finalmente all'appartamento 289 e il volto familiare del mio migliore amico apparve sulla soglia.
Un enorme sorriso troneggiò sul suo viso vedendo la valigia accanto a me ed io ricambiai.
"Finalmente sei scappata da quella cazzo di casa!" urlò felice e con uno slancio mi abbracciò stressa, provocando la mia risata.
Stavo compiendo il primo passo verso la mia nuova vita.

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