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"Quindi l'ha finalmente ammesso."
L'appartamento di Jason era sempre stato un po' come una seconda casa per me.
Ormai da due anni ogni qualvolta sentivo il bisogno di scappare via da tutto venivo qui e la sola presenza del mio migliore amico riusciva a calmarmi.
Ci conoscevamo da quando eravamo bambini, io e Jason.
Eravamo sempre stati una cosa sola, nel corso della nostra vita avevamo affrontato tutto insieme.
Ostacoli, sbronze, errori, sbandate, sempre mano nella mano.
Un po' come quando senti di stare per affogare, senti l'aria scappare via dai tuoi polmoni e il petto salire e scendere freneticamente come in una diabolica danza, ma poi qualcuno ti lancia una corda e ti tira su, salvandoti.
Ecco, Jason mi aveva sempre salvata.
Mi capitava spesso, quando eravamo insieme, di bloccarmi a fissarlo mentre lui continuava a parlare non accorgendosi di niente, e intanto la mia mente viaggiava senza mai fermarsi.
Lo guardavo e mi accorgevo sempre di più di aver finalmente trovato la mia persona.
Ero sicura che lui non mi avrebbe mai abbandonato, che sarebbe sempre stato la mia luce, l'unico riferimento in mezzo al buio più totale.
"Già, senza giri di parole" risposi continuando a fissare il vuoto.
Ero consapevole che la discussione con mia madre avrebbe dovuto farmi male, aprire un varco nel mio petto e lasciarmi quella familiare sensazione di amaro in bocca, ma io non sentivo niente.
Non ero arrabbiata, non ero delusa, non ero triste, semplicemente non sentivo niente.
Era come se qualcuno avesse spento i miei sentimenti lasciandomi ad essere un guscio vuoto, e la cosa non mi piaceva per niente.
Mi accorsi quasi subito che le mie mani avevano iniziato a tremare, ma decisi di non farci caso, nella vana speranza che presto avrebbero smesso.
Sapevo a cosa erano dovuti questi tremori, non mi sparavo una dose già da sei ore e il mio corpo iniziava a sentirne il bisogno.
"Com'è andato il primo incontro?"
Il suono della voce di Jason mi distrasse ed alzai subito lo sguardo verso di lui.
"È stato strano, in realtà" ammisi.
Il viso del mio migliore amico si contrasse immediatamente in un'espressione bizzarra che, mio malgrado, non riuscì a decifrare.
"Definisci strano."
Ad un tratto il mio sguardo finì nuovamente sulle mie mani tremanti e la mia mente riprese a viaggiare.
Mi chiesi se fosse il caso di buttare fuori tutto ciò che per un'intera giornata avevo tenuto per me, se fosse giusto rigettare tutto ciò su una persona che non fossi io.
Iniziai a parlare prima di poter trovare una risposta.
"Avresti dovuto vederle le facce di quelle persone, J.
La maggior parte di loro non ha fatto altro che fissare il vuoto per tutta la durata dell'incontro.
Non hanno voglia di vivere, non hanno più neanche la minima speranza."
Riportai lo sguardo su Jason e lo trovai a fissarmi in attesa che continuassi a parlare.
"C'era un ragazzo messo all'angolo, non poteva avere più di ventisei anni.
Mi sembra che abbia detto di chiamarsi Tyler, o forse Trenton, onestamente non mi ricordo.
Il punto è che questo ragazzo aveva un'espressione strana, un sorriso tirato che non ha mai abbandonato il suo viso, neanche per un solo istante.
A tutti è sembrato semplicemente spaventato ma io ho notato un'altra cosa.
Tremava.
Era scosso da forti tremori in tutto il corpo.
Il suo sorriso forzato era solo un modo per ingannare gli altri e non far notare a nessuno l'evidenza e, per quanto assurdo, il suo trucco ha funzionato.
Nessuno dei presenti si è accorto di nulla."
Nella mia mente tornavano vive le immagini di un ragazzo in crisi d'astinenza.
Un ragazzo giovane con ancora tutta una vita davanti ma che forse non avrebbe vissuto.
Tornava viva l'immagine dei suoi occhi fugaci, del suo sorriso forzato che, per un secondo impercettibile, si era trasformato in una smorfia di dolore.
"È corso via prima che chiunque altro potesse alzarsi dalla sedia, comunque.
Sono quasi del tutto sicura che sia andato a spararsi una dose."
Jason pendeva dalle mie labbra e ascoltava le mie parole con fare attento, come se tutto ciò lo riguardasse in prima persona.
"Io non voglio essere come lui.
Non voglio che la droga decida per me, non voglio essere sua schiava."
I miei occhi iniziarono a riempirsi di lacrime e il respiro si fece affannoso, ad un tratto non riuscì più a controllare i tremori e fui pervasa da spasmi.
Jason si avvicinò velocemente a me e mi prese la mano.
Non mi chiese cosa avessi, lo sapevamo entrambi qual era il problema, fece solo una domanda.
"Dov'è?"
Lo guardai negli occhi e mentalmente lo ringraziai per essere entrato nella mia vita.
"Nella mia borsa" sussurrai.
Mi vergognavo fottutamente per ciò che ero diventata, non avevo mai voluto che le cose andassero in quel modo.
La mia vita mi stava scivolando via dalle dita come sabbia ed io non riuscivo a fare niente per ribaltare la situazione.
Volevo davvero smettere ma mi faceva troppo male.
E non era solo l'astinenza a causarmi dolore, ma anche tutti i ricordi che tornavano puntualmente a galla.
Iniziai a sudare in maniera esagerata e il mio respiro si fece sempre più affannoso.
Guardavo il mio migliore amico preparare la siringa a me destinata e il mio unico desiderio era che si sbrigasse.
Doveva fare in fretta perché io non ce la facevo già più.
Jason si avvicinò a me e con la testa mi fece segno di alzare la manica del maglione.
L'arrotolai velocemente fino alla spalla e gli porsi il braccio.
Si sfilò la cintura dai passanti dei jeans e si abbassò verso di me, allacciandola intorno al mio arto superiore.
Feci fare tutto a lui, le mie mani tremanti sarebbero state solo d'intralcio.
Quando la dose fu sparata nelle mie vene finalmente mi rilassai e sentii quella familiare sensazione di calore al basso ventre.
Il dolore era completamente scomparso lasciando spazio solo al piacere.
Iniziai a ridere sotto lo sguardo triste del mio migliore amico, forse l'avevo deluso ma onestamente non mi importava, non in quel momento.
Risi fino a quando non sentii la pancia farmi male e fui pervasa da un assoluto rilassamento dei sensi.
"Ora va meglio, grazie" dissi guardando Jason negli occhi e sorridendogli.
Lui cercò di ricambiare il mio gesto ma non gli riuscì molto bene, il suo sorriso apparve triste e falso anche a me che ero fatta come una pigna.
"Guarda che sto benissimo" gli dissi.
Mi alzai dal pavimento e feci una piroetta davanti a lui ma caddi nuovamente per terra.
Mi sdraiai completamente e mi addormentai senza neanche avere il tempo di sentire la sua risposta.
Mi svegliai qualche ora dopo in un bagno di sudore, la fronte impregnata e i vestiti fradici.
Di Jason in salotto non c'era neanche l'ombra e non avevo la più pallida idea di dove potesse essere.
Con fatica mi alzai dal divano, sul quale tra l'altro non ricordavo come c'ero arrivata, e mi diressi in cucina.
Presi un bicchiere dallo stipite sopra il lavello e ci versai dell'acqua fresca, buttandola giù in meno di un secondo.
L'appartamento era buio ma non silenzioso.
Dalla camera di Jason proveniva della musica, segno che sicuramente era lì.
Mi diressi verso la stanza ed aprii lentamente la porta.
Rimasi sulla soglia per quelli che sembrarono minuti fino a quando lui non mi guardò.
"Hai dormito bene?" mi chiese.
Il mio sguardo finì sulla sveglia accanto al suo letto, segnava le 03.45.
La musica era bassa ma perfettamente udibile.
"Che ci fai sveglio a quest'ora?" ignorai la sua domanda per soddisfare la mia curiosità.
"Non riesco a dormire."
Il suo tono rassegnato lo tradì, conoscevo troppo bene quel ragazzo per non accorgermi che qualcosa non andava.
"Qual è il problema, Jason?"
I suoi occhi percorsero la mia figura, ancora davanti la porta, fino a quando arrivò ai miei occhi.
Sbatté con delicatezza la mano sul materasso, indicandomi con il capo il posto accanto al suo.
Mi fiondai sotto le coperte e girai il viso verso di lui.
Jason mi tirò a se ed io appoggiai dolcemente la testa sul suo petto.
Iniziò ad accarezzarmi i capelli ed io quasi mi addormentai di nuovo, ma la sua voce mi fece immediatamente riaprire gli occhi.
"Non mi piace vederti in quel modo" dichiarò.
Alzai di poco la testa e fissai i lineamenti duri del suo viso.
Mi sentì profondamente in colpa, odiavo che mi vedesse in quel modo.
Non era la prima volta che succedeva e, seppur mi odiassi per questo, ero sicura che se fossi rimasta a vivere lì non sarebbe stata l'ultima.
"Mi dispiace, non voglio coinvolgerti in questa merda" sussurrai.
Jason mi allontanò dal suo petto e scrutò attentamente il mio viso.
"Il problema non è che io sia coinvolto o meno.
Il problema è che tu stai mandando a puttane la tua vita, Jade!"
Sbarrai gli occhi e lo spinsi ancora più lontano.
"Credi che io non voglia uscirne?!" urlai.
Era notte fonda ma non mi importava, non potevo credere che la persona più importante della mia vita mi stesse venendo contro.
"Credo che tu non ce la stia davvero mettendo tutta."
Ricominciai a piangere ma questa volta non gli diedi la possibilità di avvicinarsi a me.
"Ma lo capisci che mi fa male?!
Non posso permettermi di smettere perché mi fa troppo male cazzo!" continuavo ad urlare e le lacrime scendevano copiose sulle mie guance.
Non ero mai stata una persona emotiva, ma ultimamente ero diventata abbastanza instabile.
"Quindi puoi rischiare di morire ma non puoi sopportare un po' di dolore?
Ti facevo più forte Jade."
Si alzò dal letto e riprese i suoi vestiti dalla sedia, indossandoli.
Mi alzai anch'io mettendomi in ginocchio sul materasso e guardando i muscoli della sua schiena contrarsi e rilassarsi ad ogni movimento.
"Tu non capisci" dissi piano.
Jason si voltò immediatamente verso di me, era arrabbiato e si vedeva.
"No, sei tu quella che non capisce!
Non stai rovinando solo la tua vita ma anche quella delle persone intorno a te!
Tu ti fai del male ed automaticamente ne fai anche a me, perché non lo capisci porca puttana?!"
Si portò le mani tra i capelli e iniziò a fare avanti ed indietro per tutta la stanza.
Il suo respiro si faceva più pesante ad ogni passo che compiva.
"Non è quello che voglio."
Non riuscivo a guardarlo negli occhi, provavo vergogna per me stessa e mi odiavo perché gli facevo del male, e fare del male a Jason era l'ultima cosa che volevo.
"Devi togliermi una curiosità però."
Si fermò finalmente davanti al letto e puntò un dito nella mia direzione.
Io annuì impercettibilmente per invitarlo a porre la sua domanda.
"Perché vai agli incontri se non hai intenzione di smettere?"
Era la domanda che aspettavo da tempo, la stessa domanda che mi ponevo da quando avevo iniziato a frequentare i narcotici anonimi.
Io volevo smettere, volevo davvero riprendere in mano la mia vita, ma il mio corpo me lo impediva.
Avevo bisogno della morfina.
E anche se fossi riuscita a superare il dolore fisico legato all'astinenza, non ero sicura che sarei riuscita a sopravvivere a ciò che era diventata la mia esistenza.
Il dolore per la perdita di Jackson, i sensi di colpa, l'odio di mia madre e il mio odio verso me stessa, l'aver mollato la scuola e la consapevolezza di non avere un futuro.
La solitudine e il disadattamento.
Avrei superato tutto questo? Non lo sapevo, e finché non ne sarei stata sicura non avrei smesso.
Quindi, perché partecipavo agli incontri?
Forse per illudere anche me stessa che ci stavo provando e che volevo uscirne, quando la realtà era totalmente opposta.
"Non lo so."
Jason sbuffò e si avvicinò alla porta della camera.
Abbassò la maniglia e prima di lasciare definitivamente la stanza si girò un'ultima volta verso di me.
"Era proprio la risposta che speravo di non sentire."
E così dicendo se ne andò, lasciandomi da sola con la testa fra le mani e i cocci della mia vita sotto gli occhi.
Perché i pezzi sembravano non combaciare più?
Qualcosa era andato storto, anzi, tutto era andato storto.
Avrei tanto voluto ripercorrere i miei passi e stare più attenta a dove mettevo i piedi.
Avrei voluto gestire tutto diversamente ma io ero così, ero impulsiva e irragionevole.
Ero la causa del mio male e adesso le lacrime mi toccava asciugarmele da sola.

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