Dieci.

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«Per quanto ancora non mi rivolgerai la parola?»

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«Per quanto ancora non mi rivolgerai la parola?».

Rebecca, continuando a fingere di ascoltare la musica dagli auricolari, resta con il capo chino sulla piccola scrivania di legno per finire i suoi compiti.

Sospiro, incrocio le braccia al petto e tengo gli occhi fissi sui suoi boccoli dorati, che sembrano quasi burlarsi di me: la sorella maggiore troppo opprimente.

Che schifo essere la più grande.

Ingoio un ringhio, sopprimendo la malsana voglia di tirarle i capelli fino a staccarglieli, perché non sopporto quando le persone mi ignorano, neanche fossi un misero moscerino da scacciare via.

«Reb», la richiamo per l'ennesima volta. «Andiamo, basta tenermi il broncio. Non ti pare di star esagerando?».

Appoggio la spalla alla sbarra del letto a castello, alla ricerca della calma perduta, e inizio a contare mentalmente. Purtroppo, la pazienza non è mai stata il mio forte.

Ieri, quando sono ritornata a casa dopo la strana conversazione con quello sconosciuto, avevo tutte le intenzione di discutere con lei riguardo ciò che mi è stato detto da Nicholas. Cristo, l'ho beccato a riallacciarsi i pantaloni proprio mentre scendeva le scale per darsi alla fuga, come un lurido ratto.

Peccato che mia sorella si sia inventata un improvviso mal di testa e abbia deciso di coricarsi a letto, sempre con le sue solite cuffiette. Perciò, visto che nemmeno io ero nel pieno della mia forma, ho preso gli integratori e le vitamine e ho mangiato qualcosina, decidendo di rimandare la conversazione.

Ma ora è arrivato il momento di mettere le cose in chiaro. Non possiamo andare avanti così, e se Reb è una che tende a nascondersi, io sono quella che si getta nel fango.

Quindi la richiamo per l'ultima volta. «Rebecca!».

Ma niente. Lei si limita a tamburellare il piede sul pavimento, come a dirmi che mi sente ma non gliene importa niente. Un caloroso invito ad abbandonare la mischia, insomma. Beh, forse si è dimenticata che so essere più testarda di un mulo.

Mi avvicino a lei a passo di toro e, con un colpo secco, le sfilo via l'auricolare dall'orecchio. «La vuoi smettere di fare la bambina? Non hai più cinque anni, cazzo», sbotto.

Rebecca sussulta sul posto, la sedia girevole di plastica cigola appena, e osservo le nocche strette attorno alla penna nera sbiancare. Mi lancia un'occhiata blu di sfuggita, assottiglia le labbra in una linea retta, ma persiste nel suo stupido gioco del silenzio, convinta che per me sia una punizione.

E un po' lo è. Non c'è cosa che mi faccia ammattire più del silenzio punitivo. Mi fa uscire fuori dai gangheri, gratta i legamenti del mio sistema nervoso fino a corrodermi.
Anche quando fingo che non me ne importi un fico secco, in realtà dentro mi sento bruciare nel ritrovarmi davanti a una porta blindata.

Che poi, determinate cose mi restano in gola e ingoiare i rospi fa sempre male. Mi lasciano quel peso insopportabile su per lo stomaco, e non so mai come togliermelo via.

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