Giorno 1

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Smanetto col cellulare e mi tengo in disparte, ma sbircio di sottecchi alcuni colleghi che chiacchierano vicino al distributore automatico di caffè. Altri mi sfilano davanti, sui loro volti segni di un sonno non sufficiente e ombrosità che svelano il desiderio di essere in qualunque altro posto tranne che in quella dannata fabbrica.

Sono le sette e cinquantacinque, non ho più scuse. Ripongo il cellulare in una tasca del mio zainetto e intraprendo la via crucis quotidiana.

Vicino al marcatempo becco Clelia, impiegata settore amministrativo. Ciao,mi fa.

Spingo la lingua contro il palato e provo a pronunciare il suo nome: Clelia ciao, vorrei dirle. Ma le mie labbra non si scollano e tutto ciò che viene fuori è un mugolio a cui faccio seguire un allungo con la testa. Immagino di avere emulato un tacchino coi postumi di sbornia e sento sulle guance il formicolare caldo dell'imbarazzo.

Lei fa per andarsene, ma i suoi occhi tardano a seguire la direzione presa dal corpo e mi rimangono piantati addosso, come se avessero rilevato il demone con cui combatto ogni giorno e questi si fosse mostrato loro con aspetto caprino e lunghe corna ricurve.

Concentrata com'è su di me, Clelia non si accorge del titolare che è entrato col suo consueto passo di marcia militare, che tutti qui ci chiediamo come faccia a eseguire senza fare il benché minimo rumore. La teoria più accreditata vuole che abbia elaborato una tecnica di silenziamento motorio per perfezionare le frequenti incursioni di controllo ai reparti e non farsi sgamare dai dipendenti. Camminando in laterale, Clelia sta per investirlo e io vorrei avvertirla, ma non mi esce un filo di voce. È lui a schivarla agile come un gibbone, animale con cui condivide anche la caratteristica degli arti lunghi e magri. Lei si sveglia e si scusa. Lui si mostra cordiale rispetto allo scampato incidente, poi volge la sua attenzione su di me. Manco a dirlo, le sue labbra mutano il sorriso educato di un istante prima in una linea piatta con gli estremi all'ingiù. Opto per un bel cenno del capo. Lui si limita a ricambiare il cenno e sgrana gli occhi come se la normale apertura palpebrale non fosse sufficiente a contenere l'astrusità dell'essere che ha davanti: io.

Scatto verso il reparto di produzione per sottrarmi a quello sguardo che percepisco come una lastra di marmo sulla schiena.

Butto a terra lo zainetto e mi accuccio sullo sgabello sgangherato cui mi è stato concesso di poggiare il fondoschiena mentre programmo la macchina ricamatrice. Stretto tra il gigantesco macchinario e una parete grigia, mi sento a mio agio, come se essi delimitassero una sorta di tana. Da lì, a ogni collega che passa sono in grado di rigurgitare un buongiorno.

Io ce la metto tutta per tirare fuori le parole, ma le mie corde vocali hanno bisogno di un certo assist per compiere la funzione a cui sono deputate: emettere suoni, possibilmente articolati.

Parlare con la gente mi annichilisce. Non mi sento meno intelligente delle persone con cui ho a che fare, non meno della maggior parte di loro almeno, tuttavia ho sempre il terrore di dire qualcosa di stupido.

Scontato come la fame poi, ogni volta che mi riesce l'operazione di trasporre i pensieri in parole, faccio una gaffe.

Allora mi trincero dietro un mutismo totalizzante, non che gli altri si sforzino più a conversare con me. Gli unici temerari che ancora osano, non fanno altro che sputare roba di circostanza come il freddo o il caldo percepito, la crudeltà del lunedì, il conforto del venerdì...

Il tempo trascorre lento e angoscioso e nel quarto d'ora di pausa, a metà mattinata, non oso allontanarmi dalla mia postazione protetta. A mezzogiorno una specie di sirena antiaerea annuncia la pausa pranzo e a quel punto devo sloggiare per forza. Badando che nessuno mi veda, recupero da un secchio di metallo gli scarti di produzione: brandelli di tessuto fallato o dalle trame mal composte. Li ripiego alla bell'e meglio per compattarli un poco e li infilo nello zainetto.

Le parole nella bollaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora