Un mese era passato da quando Helena aveva varcato i cancelli di Auschwitz, un mese interminabile in mezzo a quell'inferno di fame, dolore, maltrattamenti, persone che sparivano e non tornavano più. La giovane cecoslovacca aveva una giornata scandita da ritmi sempre uguali, non importava che giorno della settimana fosse; non c'erano feste, compleanni, giorni di riposo.
La giornata di Helena era così divisa: l'appello avveniva fuori dalle baracche al mattino presto, intorno alle 6, la colazione consisteva, quando era possibile, in una tazza di caffè annacquato e poi, con la pala o il piccone sulle spalle, si metteva in fila, allineata ad altre due o tre ragazze sfortunate come lei, per andare nei boschi limitrofi al campo a spaccare legna; se la neve alta non lo permetteva c'erano sempre grossi massi da rompere con il piccone. Helena finiva a tarda sera, era sempre sfinita, e sulla via del ritorno alle baracche era costretta a cantare le canzoni composte dalle sue sorveglianti.
In quel mese di marzo così diverso da tutti quelli che aveva vissuto nella sua vita, Helena iniziava a vedere i cambiamenti della natura intorno a lei: il sole cominciava a riscaldare, la neve cominciava a sciogliersi, gli alberi cominciavano a sbocciare e nell'aria si sentiva la primavera che stava arrivando.
Il 21 marzo iniziò uguale a tutti gli altri giorni: sveglia alla solita ora, Helena riuscì ad agguantare una tazza di caffè semi caldo che la aiutò a dare un po' di forza a quel corpo provato da duro lavoro, freddo e malnutrizione. Era ad Auschwitz da un mese eppure vedeva già i cambiamenti nel suo fisico: sentiva il viso scavato, sentiva le ossa pronunciate sotto la sua pelle. Non mangiava propriamente dal giorno precedente alla sua deportazione nel campo di concentramento.
In file di tre persone si avviarono verso i boschi armate di ascia: quel giorno dovevano spaccare della legna che sarebbe servita quella sera al temuto Franz Wunsch, un nome conosciuto tra le baracche di Auschwitz: era il supervisore delle SS, era lui che decideva chi doveva vivere e chi morire all'interno del campo, sceglieva gli internati per le camere a gas e li accompagnava durante il percorso. Era il suo compleanno e nella sua confortevole casa avrebbe dato una festa.
Quel giorno, insieme a loro, non c'erano solo sorveglianti donne, come invece accadeva normalmente, e cani, ma anche un giovane uomo in divisa, che le seguì fin dentro al bosco. Da quando Helena si trovava in quel posto era la prima volta che un uomo accompagnava il gruppo di lavoro di sole ragazze. Non fece domande a nessuno, non era suo interesse dopotutto, ma si insospettì. Doveva esserci un motivo preciso.
Arrivarono nel luogo destinato al taglio del legno, una sorvegliante urlò di iniziare a lavorare; il giovane SS rimase in silenzio per un po' a guardare quelle povere donne fare fatica: aveva un ghigno diabolico stampato in viso. Poi si avvicinò ad una delle sorveglianti e le sussurrò qualcosa ad un orecchio. Lei eseguì l'ordine appena ricevuto.
«Cantate!» gridò.
Le ragazze eseguirono senza battere ciglio; mentre cercavano di raccogliere più legna possibile, intonarono i canti che le sorveglianti avevano fatto loro imparare. Cantarono con il poco fiato che avevano, provate da quell'ulteriore sforzo.
«Silenzio!» urlò dopo un po' la solita sorvegliante.
Le ragazze si zittirono di colpo. Il giovane SS iniziò a girare tra le prigioniere, guardandole una ad una. Nessuna di loro osava alzare gli occhi da quello che era impegnata a fare. Nemmeno Helena, quando il giovane si fermò davanti a lei. La scrutò attentamente, poi la alzò a forza. Helena fece cadere l'ascia che aveva in mano, colta di sorpresa da quel gesto. Un cane abbaiò: non era permesso alle ragazze di abbandonare lo strumento di lavoro; fu fermato però dal sorvegliante che lo trattenne per il guinzaglio.
«Fatti trovare stasera, davanti alla tua baracca. Ti passerò a prendere. Dovrai cantare per Franz.»***
Helena ubbidì all'ordine che il soldato delle SS le aveva dato quel giorno.
Appena scesa la sera si fece trovare pronta davanti alla baracca dove dormiva, con i suoi abiti da carcerata. Solo quando si fece buio l'uomo che l'aveva selezionata tra tante si fece vivo.
Senza nemmeno salutare la ragazza, la prese per un braccio e la strattonò, spingendola davanti a sé; Helena tremava di paura. Fu condotta dall'SS ad una baracca, l'uomo aprì la porta e la giovane si trovò davanti un ambiente confortevole e caldo. Doveva essere l'abitazione del soldato.
«Fatti una doccia ed indossa l'abito che trovi in bagno» le ordinò.
Helena ubbidì.
Si tolse gli abiti da carcerata e si infilò sotto la doccia calda. L'acqua che scorreva sulla pelle era una sensazione che non provava da troppo tempo, il sapone che portava via le impurità e che ridava lucentezza a quel corpo ormai spento la fece piangere. Non doveva però, perdere tempo; doveva ubbidire alle richieste nel più breve tempo possibile se non voleva essere punita. Si asciugò velocemente ed indossò il vestito nero, lungo, con le paillettes che ornavano la scollatura a U e le maniche, che era appeso al muro. Si guardò allo specchio, stentando a riconoscersi. I suoi capelli ricci, scuri, erano spenti, così come lo erano i suoi occhi neri, velati di tristezza. Il suo viso rotondo era dimagrito, il naso leggermente a punta. Con quel vestito, però, si sorprese nel sentirsi ancora una donna, una sensazione che non provava da un po'.
Uscì dal bagno e aspettò ordini dall'SS che stava fumando una sigaretta sulla soglia della sua abitazione. «Andiamo!» Disse, gettando a terra il mozzicone e spegnendolo con la suola del suo stivale.
Si diressero verso un'abitazione vera e propria; le luci erano accese, si vedevano delle figure muoversi all'interno. Helena tremava quando varcò la porta della casa, non sapeva il destino che la aspettava quella sera.
Vari soldati e ufficiali delle SS stavano in piedi, chiacchierando tra loro e sorseggiando dei boccali di birra; solo uno era seduto su un divanetto, le gambe incrociate, il braccio appoggiato allo schienale, un bel portamento, viso disteso, occhi verdi, capelli biondi, laccati. Era un bell'uomo, non poteva negarlo.
Quando Helena entrò nella casa tutti gli occhi vennero puntati su di lei. Qualcuno ridacchiò, altri le lanciarono occhiatacce, dal fondo della sala arrivò anche un "sporca ebrea". Non ci fece caso, era abituata ormai da tempo a sentirselo ripetere.
«Sei arrivata giusto in tempo» disse l'uomo seduto sul divano, squadrando la ragazza da testa a piedi. «Mettiti in quell'angolo...» e indicò un posticino sulla sinistra vicino alla finestra «... e canta. Qualsiasi canzone tu sappia, canta e basta!»
Helena ubbidì; si sistemò nel posto in cui l'aveva rilegata l'uomo che doveva essere Franz Wunsch, e iniziò a cantare le uniche canzoni che sapeva: malinconiche, tristi, come era lei all'interno di quel campo di concentramento, canzoni nella sua lingua, che tanto le ricordavano Praga, la sua città lontana.____________
Buongiorno!
Il computer è morto, pensavo di aver perso la storia, invece in qualche modo, con l'aiuto di amiche pazienti, sono riuscita a recuperarla.
Che dite? Vi sta piacendo la storia? C'è qualcosa di migliorabile?
Qualsiasi critica è ben accetta.
Grazie a tutti voi, che la state leggendo.
Al prossimo capitolo.Moni
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Anche all'Inferno Sbocciano le Rose
أدب تاريخيHelena vive un'esistenza tranquilla in Israele, insieme alla sorella Roinka. La sua quotidianità viene, però, sconvolta da una lettera che riporta a galla vecchi ricordi: quelli di un campo di concentramento, di sofferenza, dolore e morte. Ma anche...