POV DAMIANO
«Ehi, Dam» disse una voce gentile. Per un attimo fui confuso, nessuno mi chiamava Dam, poi avevo un mal di testa atroce, le orecchie mi pulsavano, la gola mi bruciava e ogni muscolo del mio corpo era dolorante. Aprii gli occhi, ero seduto sul divano di Jo, ancora vestito come la sera prima, con una coperta addosso. Lo stomaco vuoto mi ribolliva come se avessi bevuto acido.
«Come ti senti?» chiese, era in pigiama, il viso pallido e i capelli fuori posto, mi stava allungando un bicchiere d'acqua.
Lo presi: «Na meraviglia» dissi e la mia voce era terrificante, lei rise: «Se vieni di là c'è la colazione». Guardai l'ora, erano le dieci, a che ora ero andato a dormire? Avrei solo voluto chiudere gli occhi e riaddormentarmi di nuovo, ma sarei dovuto tornare a casa mia per farlo. Immagini della sera prima mi rimbombavano da una parte all'altra della mia testa vuota, perché ero venuto lì? Ero così senza dignità? Avevo davvero pianto dicendo che tutti mi odiano? Lei mi aveva davvero accudito come un bambino? Della discoteca non ricordavo quasi niente, fino a quando avevo suonato il campanello di casa sua. Da lì in poi le immagini affioravano anche se in una sequenza accelerata.
Quando mi alzai la testa mi girava pericolosamente e dovetti subito appoggiarmi al muro, andai in bagno senza chiedere il permesso e mi chiusi dentro. Facevo schifo, occhiaie, faccia pallida e stravolta, avevo persino un brufolo sulla tempia e le labbra secche e spaccate. Mi lavai il viso e avrei tanto voluto togliermi la camicia per qualcosa di comodo.
Quando entrai in cucina, Jo stava sistemando il ciuffo a un ragazzo in pigiama che era già seduto al tavolo, ma appena mi vide tolse la mano di scatto.
«Dam, lui è Leo» disse e si mise a trafficare sui fornelli mentre noi ci stringevamo la mano. Mi sedetti al lato opposto e iniziai a osservarlo: era un tipo completamente insignificante, barba da hipster, occhi scuri, capelli rasati ai lati, occhiali da vista tartarugati, era magro e non aveva un fisico atletico. Doveva essere un bel cambiamento passare da me a uno così.
«Te la senti di mangiare qualcosa?» mi chiese Jo, stava continuando a usare un tono dolce come se io fossi un bambino abbandonato che aveva trovato per strada e iniziava a irritarmi. Poi però mi mise davanti un piatto di pancakes che mi fece dimenticare persino il mal di testa: «Che fico, pancakes, chi li ha fatti?».
Rispose il tipo inutile: «Josephine è una cuoca provetta, non lo sapevi?» disse, rivolgendo a lei un sorriso che per poco non mi fece sboccare di nuovo. Josephine? Il suo nome era davvero Josephine? Non me l'aveva mai detto. Era straniera? Avevo sempre pensato che si chiamasse Giorgia visto il soprannome. Chissà quante cose non sapevo di lei, nel giro di due secondi questo tizio me ne aveva dette due di importanza vitale, direi.
«Provetta, non esageriamo. Mi piace cucinare» e alzò le spalle, sorridendo per l'imbarazzo. «Lì c'è la marmellata, se no miele.»
«Beh questi pancakes erano da nove. Dieci l'avresti preso se c'era anche la nutella.»
«Nove? Cavolo questo è davvero il voto più alto che mi hai mai dato» disse lei mentre posava una tazza davanti a me: «Cappuccino. È di soia perché sono intollerante al latte, non è zuccherato perché non so come ti piace». Ora sapevo tre cose: il suo vero nome, che ama cucinare e che è intollerante al lattosio. La testa mi diede una fitta, ma i pancakes erano davvero pazzeschi, non ricordavo nemmeno se li avessi mai mangiati prima.
«Dai, allora oggi cosa vuoi visitare?» Parlava con il tizio, entrambi avevano già finito la colazione e lei stava appoggiata al bancone con le braccia conserte.
«Aspe', vado a prendere la mappa di là» e uscì, quale sfigato visita Roma con la mappa? Dovetti impegnarmi per non ridergli in faccia.
Io e Jo rimanemmo in cucina da soli, lei guardava da un'altra parte.
«Lui è il tuo ragazzo?» le chiesi alla fine.
«No, non direi. Siamo amici.»
«Andate a letto insieme?» La vidi alzare gli occhi al cielo mentre lavava le loro tazze.
«Siamo amici,» ripeté «solo amici. E no, lui non è segretamente innamorato di me o io di lui».
«Ma dormite insieme» constatai.
Si strinse nelle spalle: «Non mi piace dormire da sola».
«Non me l'hai mai detto. E non mi hai mai detto come te chiami, Josephine.»
«Non mi piace il mio nome, quindi ti sarei grata se continuassi a chiamarmi Jo e basta» sembrava irritata. Mi alzai per posare il piatto nel lavandino, lo stomaco pieno mi faceva meno male.
La afferrai mentre si muoveva attorno al tavolo: «Grazie. Pe' ieri sera» le dissi sottovoce, sentendomi un completo idiota. Ora avevo proprio voglia di una sigaretta.
Lei mi guardò fisso: «Mai più, Dam. Apprezzo che tu abbia pensato a me nello stato pietoso in cui eri, ma mai più. Non puoi presentarti qua alle quattro del mattino e cantare per le scale del palazzo, mi fa piacere aiutarti, ma mai più, okay?».
«Se, mamma.» Sbuffò e fece per andarsene, ma la presi per un braccio. «Promesso» giurai, anche se sapevo che non era vero che non sarebbe successo di nuovo, come potevo saperlo? Bevevo sempre e facevo un sacco di stronzate ogni volta.
«E prometti anche di non vendermi ai tuoi amici come se fossi un oggetto?»
Questa era più facile, mi ero pentito amaramente di ciò che era successo una settimana prima. «Prometto.»
Abbassò la voce: «E prometti di non pensare più tutte quelle stronzate di te stesso?». Il cuore mi perse un battito, ma risposi, anche io piano: «Prometto». Non era un giuramento, era il suo modo per dirmi che mi aveva ascoltato e che aveva capito.
Si liberò dalle mie braccia, mi guardò con un mezzo sorriso triste e fece per sfiorarmi il viso con le mani, ma poi si fermò: «Sai, vorrei tanto che l'avessi detto perché ci credi davvero» disse e uscì dalla stanza, lasciandomi solo con i piatti sporchi.
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Romance[...]Ehi tu con il cappello!» gridai a un ragazzo che stava fumando fuori dal locale «Ti sembro vestita come una che vuole rimorchiare?». Il ragazzo si girò verso di noi, aveva un borsalino nero sopra i capelli castani che gli arrivavano alle spalle...