Tre Colpi

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“La mamma era cambiata.

Portava ancora con eleganza quell’ abito rosa che le stava così bene e mi trattava sempre come la sua principessa. Era dolce e premurosa. La donna ideale.

C’era  però quel particolare che la tradiva. La voce. Non era più leggera e solare come un tempo. Era diventata nervosa, preoccupata, quasi meccanica. Capivo da quel minuscolo dettaglio che c’era qualcosa che non andava.

Tutto era iniziato con l’arrivo di quell’uomo.

La mamma mi aveva fatto acconciare nel migliore dei modi. Mi ero raccolta i capelli color mogano con il nastro bianco che mi piaceva tanto. Ci avevo fatto un bel fiocco. Avevo indossato il vestitino azzurro con la gonna e le maniche a sbuffo ed infine le ballerine nere, quelle che tenevo per le occasioni speciali.

Quel giorno era davvero agitata. Continuava a saltellare per il salotto. Non che questo fosse grande, ma con il suo girovagare lo faceva sembrare enorme.

Lei portava con disinvoltura un tacco vertiginoso, si era raccolta i capelli per mostrare due orecchini luccicanti, i più preziosi che aveva, ed era bellissima.

Mi aveva detto che sarebbe arrivata una persona molto importante, che ci avrebbe aiutate e che dovevo quindi comportarmi bene. Aveva terminato rassicurandomi che l’avrei trovata simpatica.

Io e la mamma vivevamo in un piccolo appartamento al terzo piano di una palazzina poco lontana dal centro. Era un bilocale arredato di fretta.

Dopo la morte del papà io e lei avevamo iniziato a viaggiare. Ero molto piccola. La mamma mi aveva raccontato di aver provato una decina di città. Non mi aveva mai spiegato il motivo di questo cambiamento e l’argomento “babbo” era tabù.

Mi aveva insegnato lei a leggere e scrivere, ad andare in bicicletta e perfino a nuotare. Passavamo le giornate insieme. Mi era capitato qualche rara volta di rimanere sola in casa. Lei mi chiudeva dentro e mi diceva che sarebbe tornata in fretta dalla sua “cucciolotta”.

 

Quel giorno avevo sentito suonare alla porta. Ecco entrare un uomo alto, abbastanza grasso e vestito male. Non mi aveva fatto una bella impressione.

La mamma era contentissima. L’aveva fatto sedere a tavola e aveva iniziato a riempirgli il piatto senza fargli mai mancare vino dal bicchiere.

 Mi faceva paura quella persona. Non capivo cosa ci facesse lì con la mamma.

Lei non faceva altro che parlare di me.

A fine pasto lui, senza dire nulla, si era alzato. Aveva preso la sua giacca e se ne era andato.

Da quel giorno ho iniziato a vederlo spesso. Entrava in casa senza avvisare e spesso si sedeva sul divano a guardare la tv. Veniva per mangiare oppure per bere.

Una sera avevo chiesto alla mamma perché quell’uomo quasi sconosciuto si comportava così in malo modo.  Lei mi aveva risposto che per noi rappresentava una salvezza, ci avrebbe aiutate davvero tanto e che quindi dovevamo accettare il suo atteggiamento.

Passavano settimane nelle quali non lo vedevo mai e periodi ,invece, dove ero costretta a sopportarlo tutti i giorni.

Solo una volta vidi quell’ uomo fare un gesto carino verso di lei.

Si presentò a casa con un pacchetto. Dentro c’erano  un maglione di lana nero e una piccola bambolina. La mamma aveva iniziato a piangere dalla felicità; io mi ero limitata a giocherellare con quell’obrobrio per poi farlo sparire in un cassetto.

 

Un pomeriggio d’estate diluviava. Il cielo era squarciato da lampi e tuoni. Quella sera la mamma aveva un appuntamento. Non so di preciso dove voleva andare. Mi aveva semplicemente detto che sarebbe rientrata presto.

Era triste. Lo si vedeva.

Le sue parole mi avevano spaventata.  Aveva usato un tono calmissimo nonostante il suo viso trasudasse preoccupazione.

Avevamo giocato a nascondino, come quasi ogni sera. Il mio rifugio preferito era l’armadio dei vestiti.

Avevo sentito entrare quell’uomo.

La mamma mi aveva messo il pigiama frettolosamente e mi aveva infilata a letto.

Era rimasta molto tempo ad accarezzarmi i capelli e a cantarmi ninnananne.

Avevo chiuso gli occhi per non darle dispiacere. Sapevo che teneva a lui .

Prima di uscire dalla camera mi aveva dato un bacio sulla guancia e aveva lasciato qualcosa sul comodino. 

In soggiorno li sentivo gridare.

Avevo paura. Più volte li avevo scoperti bisticciare, come diceva lei, ma mai così ad alta voce.

Avevo aspettato che uscissero di casa per aprire gli occhi. 

Sul mobiletto c’era una lettera.

“Cara Rosie, luce della mia vIta. Un giorno…”

Dei passi mi avevano fatto rizzare le orecchie e lo scricchiolio del  pavimento vecchio mi aveva fatto interrompere la lettura.

L’ultima cosa registrata nella mia memoria era la mano forte di quell’ uomo che mi teneva ferma e un liquido caldo che mi colava dalla gola.

Era il 6 Agosto 1988. Appartamento 11, Stephen Street.

Mi chiamavo Rosie.

Vedevo il mio corpo penzolare dal letto.

In quel momento ero morta.  Forse no.

L’unica cosa certa era che sarei tornata e l’avrei fatta pagare.

Molto cara”.

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