L'ossario

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L’odore della pioggia si alzava dall’asfalto dei viali del cimitero di Torrevera, da poco il cielo aveva buttato giù le sue ultime lacrime e Al (giardiniere del luogo sacro) con la sua scopa ripuliva gli stessi dai ramoscelli caduti dai cipressi.
– NON CI SONO RIPARI DAL DOLCE TOCCO DELLA FALCE FATALE – disse la voce tremolante di una vecchietta; era vestita di stracci e avanzava con i piedi nudi sporchi di fango e incisi da numerose ferite aperte dalla quale scivolavano gocce di sangue. Era apparsa dal nulla, sembrava una mendicante che vagabondava lentamente appoggiandosi ad un bastone di legno rovinato.
– NON CI SONO RIPARI CHE PROTEGGONO DAL DOLCE TOCCO DELLA FALCE FATALE – Ribadì la randagia signora mentre due fili di bava gli lucidavano gli angoli delle labbra sporcate da residui di pane bagnato.
– FORSE E’ UN PO’ MATTA – Pensò Al e nello stesso istante si scontrò con il suo sguardo grigio, rugoso e vuoto.
Un vortice di foglie si alzò improvviso al centro dei viali catturando al suo interno la vecchietta che scomparve con esso. Ma Al era troppo impegnato nella sua mansione per notare l’accaduto.
Depositò i sacchetti colmi di foglie nel bidone dei rifiuti e un gatto che balzò fuori lo fece indietreggiare con i suoi versi minacciosi.
Il vento iniziò a fischiare tra le croci di ferro che sporgevano dalla terra santa dando una spinta al gatto che balzava su un dosso e l’altro con la sua morbida andatura. Si piantonò ai piedi del portone di legno della chiesa lasciando andare ancora una volta i suoi versi prima di dileguarsi oltre la soglia; nell’odore d’incenso e nel delicato tepore delle candele.
– SE SI AGGRAPPERA’ AI CANDELIERI, RISCHIERA’ DI INCENDIARE LA CHIESA – Al preoccupato si precipitò in chiesa; il gatto era là e lo fissava dall’altare. Al si portò ad un palmo da quegli occhi verdi che lo rispecchiavano, gli allungò una carezza che il felino scansò scomparendo poi tra le sbarre di un cancello che si trovava in un angolo dietro l’altare.
– NON ANDARCI… NON PENSARCI NEMMENO DI APRIRE QUEL CANCELLO – La voce nella sua testa era battente come un martello, ma non abbastanza forte. Si avvicinò e oltre all’odore di muffa sentì anche l’aria gelida e la sentiva sulla pelle da sotto i vestiti.
– VATTENE.. VATTENE.. VATTENE. SCAPPA VIA..- Contro al suo istinto, afferrò il cancello e sfrenatamente lo scrutò fino a quando la serratura corrosa cedette a quella furia. D’innanzi a lui oscurità regnava in quello spazio soffocante e copriva una scala che scendeva in una curva che sembrava infinita. Prese l’accendino e accese lo stoppino di un cero votivo che giaceva in una nicchia sulla parete, alzò lo sguardo cercando di evitare le ragnatele che scendevono dal soffitto come la bava di un San Bernardo e che gli sfioravano i capelli. Nel muro c’erano altre nicchie che non custodivano ceri, ma teschi ricoperti di polvere, erano distanti più o meno un metro l’uno dall’altro e quando Al scese l’ultimo gradino, ne contò quarantasette. Era circondato da cumuli d’ossa dove qualche piccolo ratto aveva trovato rifugio nelle orbite vuote di qualche teschio. Al centro di quel sottosuolo c’era ancora lui (il gatto) ma questa volta era in compagnia della vecchietta che aveva incontrato poco prima.
– SCAPPA SCAPPA – Ancora la voce nella sua testa, questa volta tentò il passo della fuga ma le sue gambe erano bloccate.
– NON C’E’ RIPARO DAL DOLCE TOCCO DELLA FALCE FATALE – Al la guardò mentre la vecchietta si esibiva in una metamorforsi del suo aspetto: le mani si spogliarono della pelle, così come anche tutto il resto del corpo; lo sguardo grigio si tramutò in orbite scavate e nelle mani il suo bastone divenne una falce affilata. Al restò ipnotizzato dagli occhi del gatto che brillavano come due lucciole, fino a quando non venne toccato dalla dolce falce.
Cadde a terra, ormai privo di vita in attesa che i ratti, con i loro denti affilati strappassero brandelli della sua carne fredda.

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