Lightseeker

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Ogni essere umano cerca una luce nella sua vita.
Alcuni la cercano in un partner con cui splendere come il sole stesso. 
Altri la trovano nel fondo di una siringa, negli angoli bui della città, o nelle loro case, avvolti da spirali di veleno gassoso. 
Alcuni sperano di ottenerla con il duro lavoro, avanzando di grado in grado di pari passo con la loro depressione cronica, senza collegare le due cause. 
Altri, invece, desiderano la vera luce, quella materiale e semplice. Non il bagliore accecante di  mezzogiorno, non il romantico tramonto autunnale. Vogliono che sia piccola, fragile e temporanea, proprio come le loro vite: un fiammifero, un lampione lampeggiante, o, ancora, una torcia, che potrebbe spegnersi da un momento all'altro. 

Stephen Murphy era uno di questi, uno dei tanti disperati dall'infanzia difficile: nacque  rubando gli ultimi palpiti di vita a sua madre che, stando alle parole di suo padre, era morta  maledicendo il frutto del suo grembo. 
Matthew, che era appunto l'ultimo genitore che gli era rimasto, non fu molto più gentile della consorte: non aveva mai desiderato un figlio, e ora si ritrovava a  quarantacinque anni con un moccioso a carico, che per altro gli aveva portato via l'unico essere che avesse mai amato. 
Con queste premesse non si può certo dire che Stephen crebbe in un ambiente salutare, ed infatti non vi mentirò, e vi narrerò ogni dettaglio. 
I primi quattro anni non furono eccessivamente duri, poiché fu affidato ad una vicina di casa, una vedova di cinquantatré anni, che di notte si faceva ripagare il favore nel letto di Matthew (come in seguito il figlio scoprì). 
La donna, Marie, era una casalinga poco incline alla fatica, e preferiva stare sul divano con Stephen a guardare la televisione che impegnarsi in una particolare attività ricreativa, compresa quella di giocare con il piccolo. 
Così, tutto quello che egli fu in grado di ricordare di quel periodo furono immagini sfocate del tubo catodico, che lo colpirono non tanto per le forme in sé, quanto per la luminosità e il calore che gli sapevano trasmettere. 
Compiuto il suo quarto anno di vita, ovviamente senza torta, regali o amici invitati, Marie divenne ufficialmente la donna di casa. 
Vendettero la sua vecchia abitazione e si trasferì dai Murphy,  riempiendo ogni stanza del suo ciarpame senza senso. A quel tempo Stephen era molto pallido, con una massa impastata di capelli rossi in testa e spiccate lentiggini sul volto, che tradivano la sua discendenza irlandese. 
Sangue di famiglia, gli rispondeva Matthew ogni volta che gli chiedeva perché era così diverso dagli altri ragazzini che vedeva in giro, guadagnandosi l'unico gesto da suo padre che si poteva dire affettuoso: una vigorosa arruffata di capelli, che serviva solo a  scompigliarli di più. Ma tutto, come dicevo, finì il giorno in cui quella che era in pratica l'unica madre che ebbe mai avuto entrò in casa sua. 
Marie perse quella finta gentilezza che aveva coltivato per anni, e divenne un tiranno, che si scatenava quando il suo nuovo "marito" andava a lavorare solo per calmarsi al suo ritorno, solo per evitare di essere malmenata. 
Infatti Matthew amava bere e non rifiutava mai un bicchiere con i suoi amici, che speso finiva per diventare una o due bottiglie di scotch, e una volta rientrato, si divertiva a sfogarsi verso la prima cosa o persona che vedeva. 
Ovvero, il più delle volte, Stephen, che imparò troppo presto cosa fosse il dolore e poco dopo come riuscire a sopprimerlo. Così, dopo che suo padre perse il gusto di picchiare un manichino senz'anima peldicarota, si inventò un nuovo trucco per divertirsi: lo rinchiuse in cantina, un posto sporco e umido, dagli scalini divorati dai topi, piazzando una torcia in cima alla scala. 
La prima volta che Stephen fu gettato lì dentro, il terrore assoluto. 
I topi stridevano negli angoli, guardandolo con occhi rossi colmi di malvagità da buchi rosicchiati, e l'oscurità avvolgeva ogni cosa, rendendogli impossibile muoversi senza sbattere o inciampare sul pavimento. 
Non osava andare a prendere la torcia perché sapeva che gli scalini erano marci e un passo falso lo avrebbe fatto cadere da un altezza pericolosa, considerando la sua età. 
Così salì in cima ad un barile polveroso, per evitare di essere morso dai ratti, e aspettò che venissero a prenderlo, tremando come una foglia ad Ottobre. 
Aspettò, aspettò per ore, ma nulla, la porta non si apriva, la luce non faceva di nuovo capolino al suo sguardo. Lentamente, senza che se ne accorgesse, cadde in un sonno profondo. 
Si risvegliò ancora su quel barile, mentre suo padre lo prendeva di peso dicendogli: "Allora, ti sei  divertito, Steph?" e scoppiando in una sonora risata. 
Quella fu la volta in cui il piccolo imparò cosa fosse l'odio. 

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