2 - COME IL MARE IN TEMPESTA (versione ridotta per ROMANCE ITALIA)

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Anche quel giorno, Emilia si era data alla strada. Aveva costeggiato via Magenta fino ad arrivare in piazza Attias, con De André che le sussurrava parole d'amore nelle orecchie, e poi si era diretta verso il mare, calpestando le solite vecchie piastrelle dei marciapiedi livornesi, sempre con gli occhi fissi sui piedi veloci, per evitare di inciamparci sopra.

Emilia era impossibile non notarla, neppure se l'avessi voluta cancellare dalla faccia della Terra. C'aveva sedici anni ma il viso era ancora quello di una bambina, con le gote tinte di un rosa vivace e gli occhi di un azzurro un po' sporco, lo stesso colore del mare d'inverno, quando non ne vuol sapere di starsene buono e calmo.

Emilia negli occhi c'aveva Livorno, porto di anime incomprese come lei, perché a Livorno la gente ci andava per star bene - per via di quelle Leggi Livornine che non discriminavano nessuno.

E lei livornese lo era da generazioni, sarà stato per quello che nei suoi occhi ti sentivi a casa.

*

Il sole delle tre baciava la chiesa di piazza San Jacopo: a Emilia il giallo di Napoli che avvolgeva la facciata dell'edificio aveva sempre suscitato un accanito senso di repulsione.

Era convinta che vicino al bar di Baracchina Bianca la chiesa dovesse esser bianca, altrimenti l'avrebbero chiamato Baracchina Giallo di Napoli, che a sentire un nome del genere gli ufficiali di marina sarebbero rimasti chiusi in Accademia piuttosto che andarci a fare gli aperitivi.

Emilia saltò sul cornicione che divideva la piazza dal mare, afferrò la corda che da sempre era legata ben salda alla terrazza e si calò giù, sulla passerella in cemento di San Jacopo.

Quando i piedi le piombarono a terra, rivolse lo sguardo verso il mare. Proprio lì, sull'ammasso di cemento che dava sullo scoglio livornese, Emilia si sentiva a casa.

E come la risacca che arriva a baciare la sponda per poi riprendersi ogni cosa e portarla via con sé, il mare si era ripreso gli occhi di Emilia e li aveva portati lontano, lì dove poteva starsene tranquilla.

E nelle orecchie continuava a cantare il suo Fabrizio, mentre le onde si infrangevano sugli scogli sotto di lei e il vento le rubava i pensieri: "...ma il vento che la vide così bella, dal fiume la portò sopra una stella".

*


Emilia si sentì strappare la cuffia dall'orecchio, e una voce sovrastò la storia di Marinella: «Bella, Emi Giallodinapoli

Emilia lo sapeva che c'era solo una persona al mondo che conosceva il suo odio profondo per il giallo di Napoli, e quella persona era Paolo. Le sue labbra le accarezzarono la gota e lei si sentì avvampare.

«Che ascoltavi?»

Il ragazzino le tolse il telefono dalle mani e con un braccio la bloccò per impedirle di riprenderselo. Non che Paolo fosse tanto robusto, a dir la verità era il più mingherlino di Livorno. «Io l'ho sempre detto che te sei il meglio pezzo» aveva asserito alla vista del nome di De André.

Gli occhi in tempesta di Emilia ricaddero subito sulla chitarra che il ragazzo portava in spalla, e inconsapevolmente, l'invidia le crebbe dentro come un'erbaccia da estirpare. Perché lei non poteva vincere contro la musica, e Paolo nella vita non aveva mai provato altro amore se non quello per le note che si mischiano all'aria creando il sentimento.

Paolo nelle iridi azzurre di Emilia non ci si era mai perso, perché lui di Emilia amava soltanto il modo in cui sapeva ascoltarlo e capirlo.

*


Strimpellava qualche accordo per cercare di farglielo entrare in testa, ma Emilia attraverso la musica non ci sapeva parlare.

«Boia, Emi, non è difficile! Sicura che non vuoi provare?»

Lei scosse il capo e distolse lo sguardo: imparare cose nuove la spaventava a morte, perché c'aveva addosso la paura che si ha a sedici anni di sbagliare e fallire.

Ma Paolo lo guardava come se con lui non avesse avuto il timore di prestargli i suoi occhi per fargli vedere il mondo come lo vedeva lei. Perciò tirò fuori il suo quadernetto viola, dove faceva esplodere l'inchiostro quando tutto era triste e grigio.

Paolo le si avvicinò per leggere, e lei gli mise quel malloppo di carta tra le mani, quasi avesse voluto sussurrargli: qui c'è la mia anima di cristallo e io so che con te è al sicuro.

Paolo aveva fatto spallucce. Senza protestare, aveva aperto il taccuino sulle ultime pagine e aveva letto a voce alta: «Ci sto provando a restare bambina / A non dimenticarmi di come si viaggia con la fantasia / Gliel'ho chiesto al tempo di aspettare...»

Senza ridere, Paolo aveva guardato Emilia negli occhi in tumulto, e per la prima volta ci aveva visto Livorno.

«E lui che ti ha detto?»

Emilia si era lasciata sfuggire la voce dalle labbra, gli aveva risposto con innocenza e senza riflettere: «Mi ha detto che deve andare».

L'aveva amata lì, sul cemento di San Jacopo, solo che non lo sapeva ancora. Le aveva baciato quelle labbra che erano sempre state per lui la fonte del conforto, aveva respirato il suo odore e ci aveva sentito il mare di Livorno; poi glielo aveva intravisto negli occhi, aveva scorto il faro nelle pupille di pece, tra le sue ciglia si era sentito a casa.

Le sue mani fatte di note e accordi le affondavano tra i capelli corvini, e con quella sua bocca rossa per la tramontana ci avrebbe fatto l'amore anche subito.

Emilia c'aveva il cuore che faceva la guerra contro il petto troppo stretto, avrebbe voluto balzarle fuori e respirare anche lui il sentore del suo mare, quello che Emilia aveva visto scontrarsi in battaglia. Ma ora, in quel frangente, adesso che Paolo le stava accarezzando l'anima con le parole di Fabrizio, quel grido sommesso si era zittito.

Paolo le faceva scorrere le dita sulla pelle diafana e candida, e finalmente la sfiorava come faceva con le corde della sua chitarra. Le cantava l'amore come mai se lo sarebbe immaginato: «...e lui che non ti volle creder morta, bussò cent'anni ancora alla tua porta».

COME IL MARE IN TEMPESTADove le storie prendono vita. Scoprilo ora