Capitolo 40

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Il gelo mi sferza il viso bollente, dando vita ad uno straziante contrasto, e costringendomi ad emettere delle smorfie doloranti.  Tuttavia non posso fare a meno di attribuire questa amarezza a ciò che è appena avvenuto, piuttosto che alla neve che si posa, senza scrupolo, sul mio viso, mescolandosi alle lacrime. 
Mi stringo nella giacca in pelle, tentando di rimanere in equilibrio sui tacchi, scrutando attorno a me alla ricerca di un punto di riferimento che mi consenta di trovare la giusta strada per arrivare a casa. 
Riesco a percepire il mio sguardo smarrito, mentre ogni mio affannoso respiro si trasforma, all'istante, in una nuvoletta di vapore.
Sto ancora tremando, e non riesco a smettere di pensare alle parole del ragazzo che mi ha stravolto la vita nell'arco di poco più di un paio di mesi. 
Tuttavia, comprendo le sue ragioni, il che rende il tutto ancora più complicato, dal momento che mi ritrovo inerme, incapace, o meglio, impossibilitata a reagire. 
Non c'è nulla che tu possa fare, e nemmeno lui. Questo distacco è necessario, mi ricorda la mia coscienza, ficcanaso, ed io, per l'ennesima volta, sono consapevole di non poterle dare torto.
Penso ad Evelyn, disperata, in preda al panico, mentre la madre, implorante ed inerme, viene colpita dal lancinante dolore straziante di una malattia tanto feroce, o addirittura letale, la maggior parte delle volte. 
Poi penso a lui, ad Ian, che nel frattempo mi stringe, mi bacia, mi rincorre, si concentra su di me e solo su di me, e un'ondata di senso di colpa mi scuote, dalla testa ai piedi, come se io avessi commesso un qualche strano disfatto, e percepisco un'immaginaria propagazione della macchia del peccato dentro me, oscura ed appiccicosa, in grado di travolgere tutto ciò che incontra durante il suo spietato percorso, in maniera disinvolta. 
Un muro scrostato, decorato da graffiti di ogni dimensione e colore, mi riporta alla realtà, richiamando alla memoria in un attimo la strada di casa. 
Tiro un sospiro di sollievo, e proseguo a camminare sulle mie gambe stanche, e ormai praticamente congelate. Potrei benissimo chiamare mia madre, che nel frattempo sarà preoccupata come poche volte nella sua vita, dal momento che non sono mai stata una ragazza ribelle... non le ho mai nascosto nulla, non sono mai fuggita di casa durante i litigi, come invece raccontavano, divertiti, i miei amici di Kensinton, ho sempre rispettato gli orari, e ho sempre atteso il suo permesso prima di prendere impegni. 
Tuttavia, stavolta non ho proprio voglia di doverne parlare, e sono troppo impegnata nel tentativo di prendere più tempo possibile per cercare di scacciare queste emozioni turbolente in me, che mi stanno divorando a piccoli morsi... Per non parlare delle lacrime, che sembrano incessanti, e inizio a temere sul serio che i miei occhi siano sul punto di esplodere, dato il loro gonfiore. 
Sfinita, giungo sul vialetto di casa, e con le ultime forze rimaste, mi precipito al suo interno. 
Comprendo all'istante che il tempo per riprendermi definitivamente non mi è bastato, dal momento che mi ritrovo di fronte al volto di mia madre impallidito, alla vista della mia figura ricoperta di neve, con le guance paonazze e una cascata di sale che mi sgorga dalle fessure degli occhi. 
«Tesoro...», inizia, terrorizzata. «Che è successo? Dove sei stata?»
La sua voce è incrinata, e vorrei con tutto il mio cuore riuscire, in qualche modo, a tranquillizzarla, ma sono, io stessa, conscia, del fatto che ciò non sia possibile.
L'unica idea che mi balena per la testa, e dunque l'unica che prendo in considerazione, è quella di ripararmi in camera mia, barricarmici dentro, ed attendere che il tempo mi culli, lenendo il tutto. 
Perchè è proprio il tempo, che ripara tutto, giusto? Starò meglio, un giorno, non è così?
Corro su per le scale, ignorando, involontariamente, mia madre. 
Mi chiudo la porta della mia camera dietro di me, e sprofondo a terra, erompendo in un pianto liberatorio, sconosciuto a me stessa. Singhiozzi strozzati, poi tremori in tutto il corpo, e infine ancora singhiozzi. 
Mi ritrovo, in qualche modo, stramazzante sul letto, sfinita, avvolta nel mio morbido piumone che sembra volermi rassicurare, rivestendomi del suo calore. 
Poco dopo dei flebili passi sulle scale giungono alle mie orecchie. Tuttavia, non riesco ad aprire gli occhi o impedire un qualsiasi contatto con gli altri, nemmeno quando la porta si schiude, lentamente. 
Qualcuno si accovaccia sul letto, sedendosi a pochi centimetri dalla mia figura disarmata. 
Una mano gelata mi si posa sulla fronte,  facendomi sobbalzare, e un ulteriore brivido mi scuote. Tuttavia, non sono nemmeno in grado di protestare qualcosa. Mi limito a lasciare andare una smorfia disturbata. 
  «Dio, tesoro... Scotti!», la voce di mia mamma rimbomba nella mia testa, colpita, proprio ora, da una lancinante fitta. «Questa è senz'altro febbre, corro a prepararti qualcosa di caldo...». 
Il modo in cui tenta di rassicurarmi, con un paio di carezze sulle guance, accende una fiammella di calore nel mio petto, impotente, tuttavia, di ringraziarla a dovere. 

Ci mancava solo questa, ironizza la mia coscienza, prima che io sprofondi nel sonno più profondo dei miei 17 anni di vita.
Sogno occhi verdi, illuminati nel buio della notte. Le palpebre che si chiudono, per poi riaprirsi, facendo precipitare giù un'aspra goccia di sale. L'incubo più inquietante che io abbia mai vissuto. 






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