Prologo:

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La sveglia che ho puntato ieri sera mi fa sobbalzare nel letto. Non l'ho mai tollerata, dal momento che ogni santa mattina mi faceva, e fa tuttora, prendere un colpo con quell'insopportabile melodia squillante.
Nonostante ciò, non mi sono mai decisa a cambiarla, per il timore che poi finirei con l'odiarne un'ulteriore.

Sbatto le palpebre più volte, prima di sentirmi completamente assalita da un'ondata di panico: primo giorno di scuola.
Un evento già di per sé terrificante, bensì peggiorato ulteriormente per via di una serie di piccoli dettagli.
Primo giorno di scuola, sì, ma in una nuova scuola, all'interno di una nuova città, costretta ad affrontare una nuova realtà, una nuova vita.

Già, costretta... Mi rendo conto solo ora che sono già tre giorni che non rivolgo la parola ai miei genitori, dopo la scelta che hanno intrapreso di farmi separare dai miei amici e conoscenti a Kensinton, a chilometri e chilometri di distanza da questo dannato posto.

''E' per il tuo bene, tesoro, si tratta di lavoro!" mi ripete continuamente mamma, con quell'espressione dispiaciuta che non mi consente mai di ribattere come vorrei, e che proprio per questo mi fa imbestialire ulteriormente...

Sono consapevole di tutto ciò, che non è colpa loro, ma mi chiedo se fosse proprio necessario accellerare così i tempi. Forse avremmo trovato una soluzione anche da laggiù, e io ora non dovrei ripetere tutto da capo... Ovviamente non hanno idea di quanto mi ci sia voluto per sentirmi accettata in un gruppo, e di come, alla scoperta della fatidica notizia, io mi sia sentita crollare il mondo addosso. Proprio quando mi ero finalmente convinta che i piccoli pezzetti di puzzle, che compongono la mia vita, iniziassero a combaciare, ecco che i miei distruggono il tutto, scaraventando via, senza pietà, il mio duro ed apparentemente eterno lavoro.

Scruto nell'armadio alla ricerca di qualcosa da indossare che mi consenta di apparire per lo meno presentabile, e alla fine opto per un paio di jeans attillati, una camicetta beige e le mie solite sneakers bianche.

Prendo lo zainetto accanto al letto, e lancio un'ultima occhiata alla mia nuova stanza, decisamente troppo spoglia per sentirla mia, prima di avviarmi sulle scale.

Al piano di sotto agguanto un paio di ciambelle, saluto Yobi con le carezze sul folto pelo che ama tanto, ed esco in silenzio, percependo lo sguardo di mia madre su di me, che tuttavia provo ad ignorare.

Fortunatamente la cittadina non è male: il vialetto è delimitato da numerosi alberi, noto un sacco di verdi parchi, dove i bambini saltellano felici in attesa dell'apertura della scuola. Sembra addirittura anche ricca di negozi di abbigliamento piuttosto interessanti.

Mi sembrano passati pressochè dieci minuti, quando giungo a quello che, per il prossimo anno, risulterà essere il mio inferno. La "Jacob's School", un imponente edificio sui toni del bianco, la cui facciata abbonda di spaziose finestre vetrate, oscurate, tuttavia, da ponderate veneziane grigie. 
Sentendomi già un pesce fuor d'acqua, dal momento che all'ultimo anno delle superiori io sarò probabilmente l'unica a non conoscere nessuno, mi faccio coraggio e mi dirigo verso la presidenza, oltrepassando la porta d'ingresso lucidata a dovere, "per firmare le ultime cosucce" come mi ricorda mamma ogni cinque minuti e mezzo.

«Benvenuta alla Jacob's, ti troverai bene, vedrai... Per qualunque cosa, sai dove trovarmi». La voce del preside è molto più profonda di quanto mi aspettassi, essendo un ometto piuttosto basso e minuto.

Riesco ad emettere un sorriso palesemente forzato, prima di uscire e ritrovarmi in mezzo alla folla del primo giorno. Lo stomaco sobbalza, mentre una ragazza massiccia mi spintona, disinvolta, per riuscire a raggiungere il suo armadietto, proprio dietro di me.
Decido di non darci troppo peso, consultando il foglio del tabellone degli orari. Scruto così alla ricerca dell'aula di matematica, nonostante l'orientamento non sia mai stato il mio forte.

«Ti serve una mano?»

Una vocina squillante proveniente da dietro le mie spalle mi distrae. Mi volto di scatto e mi trovo davanti una ragazzina paonazza, dai capelli scuri, molto lunghi e dritti come spaghetti. I suoi occhi vispi mi studiano.

«S-sì» balbetto. "L'aula di matematica?»

Il suo volto si accende.

«Oh, anche tu? Perfetto, seguimi!»

Sembra essere iscritta al mio stesso corso. Mi sento già automaticamente più tranquilla, anche se devo ammettere che per un momento ho creduto che fosse del primo anno, così piccolina.

Un secondo di distrazione, e l'ho già persa di vista... alzo lo sguardo e la vedo in fondo al corridoio, che agita entrambe le mani nella mia direzione senza farsi alcuno scrupolo. I capelli morbidi che seguono, ondeggianti, i suoi movimenti. 

Mi scappa un sorrisino, e la seguo.

Come sempre, la fortuna non è dalla mia parte, e beh, in questo caso, dalla nostra... Ci sediamo ai primi due banchi, gli unici disponibili, proprio di fronte all'imponente scrivania del signor... Tomlinson, come leggo dalla targhetta. 

Fortunatamente il professore non è ancora arrivato, a quanto pare non siamo le uniche ritardatarie.
«Beh, non siamo riuscite a procurarci i posti migliori ma almeno siamo scampati alla ramanzina del Tomlinson». poi arrossisce. «Oh, che sbadata.. Io sono Sheyla, Sheyla Kerry. Immagino tu sia nuova qui, non ti ho mai vista da queste parti...»

Annuisco sorridente. «Sono Anthea, Anthea Allen. Vengo da Kensinton.»

Intuisco che Sheyla sta per continuare la conversazione, probabilmente per farmi le dovute domande di inizio conoscenza, però viene interrotta da un sonoro «SCUSATE! Buongiorno! »

Un ometto bassino si catapulta nella classe. La testa pelata, gli occhialetti ben stretti sul naso a patata, due labbra sottili e delle manine che tengono saldi una marea di libri di spessori diversi. Deve essere il professor Tomlinson.

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