Capitolo 7

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"Entro il diciottesimo anno di età, la ragazza dovrà decidere" continuò la stessa voce.
Guardai in ogni direzione, ma niente, non capivo chi fosse a parlare.
"Fate del vostro meglio" aggiunse facendo annuire i due ragazzi che ascoltavano in silenzio la voce che proveniva dal lago. Cazzo.

"Grazie mille George!" mi svegliò la voce di mia madre che probabilmente proveniva da fuori.

Era stato solo un sogno. Un altro dannato sogno.

Mi alzai di scatto per poi sporgermi alla finestra e la vidi chinata verso il finestrino di una macchina a me sconosciuta.
"Mi ha fatto veramente piacere pranzare con te!" disse sorridente il tizio alla guida.
"Anche a me!" rispose in imbarazzo mia madre.
"Dovremmo farlo più spesso" disse lui sorridendo, per poi salutarla e andare via.

Non poteva essere... mi madre stava frequentando un uomo. No, non ci potevo credere. Ci doveva essere per forza una spiegazione plausibile.

Un senso di rabbia misto a delusione si fece spazio in me: come aveva potuto dimenticare papà così in fretta? Da quant'è che andava avanti? Era per lui che si era voluta trasferire qui?

La mia parte razionale diceva di calmarmi e di chiederle delle spiegazioni, visto che forse mi stavo facendo solo inutili film mentali, invece la mia parte impulsiva non voleva sentire ragioni.

Ovviamente la parte impulsiva prese il sopravvento, infatti mi diressi in fretta e furia giù per le scale, fino a raggiungere la porta che si era appena chiusa.

"Da quanto va avanti?" sbottai furiosa.
"Come scusa?" chiese realmente confusa mia madre.
"Tu e quell'uomo fuori. Da quanto va avanti? Dovevo cambiare aria vero? Sei solo un egoista. Adesso comprendo tutto: mi hai portata qui per stare con quello!
Non te ne frega niente di me! Ma soprattutto di papà! Lo hai già dimenticato, vero? Oppure questa storia andava avanti anche quando lui era vivo!" ero scoppiata. Avevo sputato tutta la rabbia e il dolore che covavo dentro. Le lacrime rigavano copiosamente il mio viso, la mia vista era annebbiata e fu un attimo, la sua mano sul mio viso e la guancia che mi pulsava.

"Come puoi pensare tutto questo?" sbottò glaciale "era solo un collega di lavoro con cui ho pranzato"
Era arrabbiata, o probabilmente solo delusa... e il suo sguardo faceva più male dello schiaffo che mi aveva appena dato. Come al solito ero stata troppo impulsiva. Stupida. Si ero proprio stata una stupida a pensare quelle cose...

Non la guardai nemmeno in faccia, mi girai ed uscii dalla porta di casa.

Non mi fermó...

Un richiamo, una ramanzina o anche un solo "va subito in camera tua" mi avrebbero fatto meno male... ma niente, mi aveva lasciata andare.

Mi incamminai senza una meta precisa, superai case dopo case pensando che forse allontanandomi avrei risolto qualcosa, ma niente, la rabbia non passava... non quella verso mia madre, ma quella verso me stessa.

Senza rendermene conto mi addentrai nel bosco. Gli svariati alberi che mi circondavano non erano attraversati dai raggi del sole, come avevo potuto constatare nei giorni precedenti, al contrario ora mettevano solo oscurità; il cielo era grigio, cupo, buio proprio come il mio umore.

Raggiunsi il laghetto e mi sedetti di fronte ad esso, ai piedi di un albero; rimasi li, in quella posizione per un tempo indefinito, crogiolandomi nella pace che c'era intorno a me e dimenticando ciò che era successo.

Tra bianco e paure Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora