"Siamo..."

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Silenzio.
Martin aveva sempre amato il silezio, per questo ora gli sembrava così strano che la mancanza di una voce, un rumore che lo distraesse dai suoi pensieri, stesse gravando sulle sue spalle, tentando quasi di soffocarlo.
Gli unici suoni, che peraltro riuscivano a tranquillizzarlo attraversando il vuoto attorno a lui, erano il cigolio di un ramo scosso dal vento e il risuonare di passi lontani, accompagnati da poche chiacchere.
Teneva lo sguardo basso. Avrebbe preferito morire piuttosto che guardare ciò che aveva di fronte e questo pensiero lo faceva sentire codardo, un vigliacco che rinnegava la realtà e la veridicità di quanto era successo. Nel frattempo il silenzio continuava, opprimente, grigio ed atono, come il vuoto che sentiva tentare di distruggerlo. Un vuoto profondo e terrificante, che reprimeva in un angolo del proprio cuore, come le lacrime. Sapeva che a lui sarebbe piaciuto, non sarebbe mai stato felice del suo dolore, quindi tentava di allontanarle, cacciarle,  rendendole così un mare in tempesta, ogni qual volta le sentiva arrivare.
Alzò lo sguardo, il coraggio mosso da un'onda improvvisa di vuoto, ed incontrò quella lapide liscia e fredda davanti cui era da ore.
"Oswald Cobblepot" recitava la targhetta di metallo su essa fissata, poi data di nascita e di decesso.
Si soffermò ad osservarla, quasi per poterle rendere onore. Sulla superficie levigata di pietra non era incisa alcuna frase, Martin sapeva che Oswald non era di certo fan di cose plaetali e simboliche, ma avrebbe preferito avere qualcosa su cui soffermarsi, poche parole che gli fossero lasciate, anziché dover tenere lo sguardo vacuo su quel maledetto pezzo di pietra, che aveva adesso il potere di renderlo così debole.
Avrebbe tanto voluto urlare, per strappare il silenzio, ma sapeva che aperta la bocca non ne sarebbe uscito alcun suono. Avrebbe voluto buttarsi al suolo, scavare quella terra che li separava, smuoverla, pur di riempire quel vuoto insopportabile.
Sentì una lacrima macchiargli il volto, strinse i pugni furioso di non essere riuscito a trattenerla.
Decise che avrebbe dovuto dire qualcosa e l'essere privo di voce non gliel'avrebbe impedito, quindi dischiuse le labbra e pensò alle parole che avrebbe tanto voluto avergli detto quanto ancora ne aveva la possibilità. Erano solo tre banali parole, ma le pensò così intensamente che sperò potessero bastare, che potessero arrivare a lui, ovunque fosse, che potesse sentirle senza che Martin le avesse mai pronunciate.
"Ti voglio bene..." si disse, ignorando il tempo passato che avrebbe dovuto utilizzare in quella frase.
Ed era un pensiero così semplice, che si sentì quasi stupido a formularlo, ma bastò per un attimo a placare il vuoto che tentava di distruggerlo, a farlo sentire come se il sangue che fino a quel momento aveva avvertito defluire al cervello, pulsando, fosse ora tornato in circolo.
Avrebbe voluto dire, o meglio pensare, altro, ma temeva di poter sbagliare, rovinare qualcosa in quel momento perfetto in cui la tempesta che sentiva e che era causa di fastidiosi conati si era calmata. Eppure reprimeva così faticosamente la tentazione vomitare tutto ciò che sentiva, nella speranza di cacciarlo e non doverlo più reprimere.
Si accorse in quel momento che i propri pugni stretti tremavano incontrollabilmente, mentre impegnava le dita in un movimento semplice: sfilare un taccuino dalla tasca.
Non appena l'ebbe in mano, si rese conto di quanto adesso sembrasse minuto, da giovane lo trovava molto più voluminoso. Sorrise, mentre il vuoto lo sommergeva ancora con una nauseabonda onda causata dalla nostalgia.
Tirò fuori una penna dalla tasca opposta, rimuovendo il tappo quasi con delicatezza.
Fissò per un attimo il taccuino, immobile, notando che era rimasta solo una pagina, ed iniziò a scarabocchiare qualcosa, le mani tremanti che rendevano la sua scrittura, solitamente precisa ed elegante, la stessa di quando era bambino. Pensò che avrebbe dovuto annotare qualcosa che compiacesse Oswald, magari una frase da lui pronunciata che potesse avvicinarsi a quella mai incisa sulla tomba, ma dopo averlo fatto ci ripensò, coprendo l'errore con una barra.
Quando ebbe finito piegò una gamba, per poter poggiare il ginocchio opposto sulla terra da poco smossa della tomba, sporgendosi in avanti pur di evitare di poter in qualche modo calpestare quel suolo, e posando il taccuino contro la lapide. Si sentì per un attimo mancare subito dopo averlo fatto, scivolando in avanti, a carponi per terra. Un sussulto terrorizzato lo scosse mentre piegava la testa in avanti, quasi vergognandosi che i suoi occhi stessero iniziando a bruciare. I riccioli gli coprirono il volto, mentre piangeva incontrollabilmente, le spalle scosse dai singhiozzi.

***

Camminava su quel sentiero da pochi minuti ormai, alla ricerca della tomba di Cobblepot.
Strofinava nervosamente il bordo della bombetta con le dita della mano destra, senza neanche sapere il perché. Seppur da lontano, aveva assistito al funerale, per quale ragione ora tornare in quel luogo lo rendeva così irrequieto?
Al ricordo dell'occasione, Nygma rammentò i pochi presenti, un paio di parenti lontani ed un giovane uomo sui quarant'anni, che sembrava essere cresciuto troppo in fretta, abituato a non sfogarsi e reprimere il dolore.
Non appena ebbe raggiunto la lapide, notò qualcosa su cui si soffermò per un attimo: la terra che sovrastava la bara sembrava smossa da poco, contrassegnata da quattro solchi, come se qualcuno ci avesse camminato sopra. Mentre, poggiato sulla pietra, ma senza coprire la targhetta di metallo dove erano incise le informazioni sul defunto, vi era un taccuino. Sull'innocuo oggetto era rimasto un solo foglio, scarabocchiato con grafia quasi infantile, che sbavava di tanto in tanto macchiando la carta con segni non necessari.
"Siamo meglio di amici," recitava la scritta "siamo cospiratori.", ma Nygma faticò a leggere l'ultima parola, poiché era stata sovrastata da una violenta barra, che intendeva correggerla. Difatti, in un angolo del foglio, era scritto con grafia poco più decisa: "una famiglia".
"Siamo una famiglia..." mormorò poi ad alta voce, mentre il ricordo del giovane al funerale si faceva strada nella sua mente. Che l'avesse visto da qualche parte prima d'allora? Si arrese al non ricordare la risposta, di cui nonostante tutto non gli importava più di tanto, e si impegnò più che altro a fermare lo sguardo sulla tomba, senza sapere cosa dire.
Non aveva idea del motivo per cui si fosse recato lì, addirittura una recondita parte della sua mente era convinta che lo scopo fosse di rinfacciare a Cobblepot chi dei due fosse morto per primo, ma rinunciò immediatamente, non appena avvertì una strana sensazione. Tristezza.
Rimase lì per pochi minuti, in silenzio, maledicendo stupidamente Gotham per le previsioni meteo costantemente nuvolose a qualsiasi ora del giorno. Si arrese a quanto in realtà il pensiero che Oswald fosse venuto a mancare lo distruggesse realmente, avvertendo così un nodo fastidioso alla gola. Decise che sarebbe stato meglio dire qualcosa, una qualche insulsa dedica, per poi andare via e dimenticare come si fosse sentito.
"Io ti..." mormorò, interrompendosi subito con una smorfia indirizzata a quanto gli facesse male essere lì, in quel momento. "Ti ho voluto bene. Sì, suppongo di sì..." continuò, abbassando lo sguardo e sentendosi un vero idiota a parlare alle pietre.
Così si rassegnò, ma mentre si allontanava a passo svelto, già pronto a dimenticare tutto, si ritrovò a sussurrare quasi inconsciamente, senza motivo: "Ti voglio bene."

Fine

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