Capitolo 3 - La libertà nel legarsi.

5.3K 88 8
                                    

Arrivai al lavoro con quasi mezz'ora d'anticipo quella mattina. Alle quattro, benché fossi andata a letto molto dopo la mezzanotte, non ero più stata in grado di chiudere occhio dopo essermi svegliata per l'ennesima volta di soprassalto, madida di sudore e con il respiro affannato. Alle sei e mezzo avevo già finito una caraffa intera di caffè mentre aspettavo che la città si svegliasse, pigra e con già la voglia di scappare in vacanza nonostante fosse appena cominciato luglio, appollaiata sulla mia sdraio di legno sul minuscolo balcone incastonato nel tetto. Fu proprio quello a strapparmi la firma sul contratto per l'acquisto del nostro appartamento senza pretese, anche se la portafinestra era fin troppo bassa e Mark avrebbe dovuto chinarsi per passarci, anche se era così piccolo che c'era a malapena lo spazio per una sola sdraio ed un tavolino. Lui si lamentava sempre per quel dettaglio ma io sapevo quanto in realtà gli piacesse, soprattutto perché a Manhattan era praticamente impossibile possedere un appartamento che avesse uno sfogo all'esterno che non fosse comune. Sin dai primi giorni gli dedicai cure e attenzioni, finché non diventò un piccolo spazio distensivo, pieno di piantine appese alle pareti e agganciate alla balaustra. Oltre a deliziarci di un discreto scorcio sulla città, ci permetteva di avere un luogo in cui rilassarci, che ci concedeva il lusso di qualche istante per far sbollire un litigio, o si prestava egregiamente a rifugio nel caso uno dei due avesse bisogno di un paio di minuti di solitudine. Il nostro appartamento aveva una sola porta, quella del bagno, poiché le altre furono eliminate per rimediare quel poco di spazio in più per consentirci di muoverci più liberamente. Mi chiesi se avrei più avuto occasione di rimetterci piede e, in un certo senso, sperai che non fosse così. Faceva male anche solo pensare di vivere in una casa che custodiva tanti ricordi che erano destinati a rimanere tali e ai quali avrei ripensato con dolore.

Lasciai Mark ancora nel letto a sonnecchiare. Sarebbe ripartito di lì a tre giorni e si stava giustamente concedendo il tempo per oziare quel tanto che bastava a ricaricarsi. Entrai in camera e lo guardai a lungo, prima di avvicinarmi e dargli un bacio che lo fece sorridere nel sonno. Gli scrissi un biglietto, che appesi sul frigorifero, in cui lo avvertivo che sarei tornata per pranzo e che avrei avuto bisogno di parlare con lui. Non poteva sapere che quella sarebbe stata l'ultima volta che le mie labbra avrebbero toccato una qualsiasi parte di lui, perché non appena gli avrei parlato, non appena avrei confessato, Mark mi avrebbe odiata e io avrei avuto la punizione che meritavo: convivere per sempre con la consapevolezza di aver distrutto la sua vita per non aver saputo essere sincera, non solo con lui, ma neppure con me stessa.

Avrei voluto sapermi mentire ancora e pensare che la mia fosse una sorta di fase, qualcosa di passeggero e destinato a concludersi in fretta, ma non fui in grado di farlo: volevo Ethan, lo desideravo al punto da non riuscire a pensare ad altro che non fosse lui.

Avrei voluto sapermi mentire ancora, ma divenne sempre più evidente che quello che provavo per Mark non era amore. Come poteva esserlo se i miei desideri si anteponevano a ciò che avremmo dovuto o potuto significare insieme? Chiamarlo ancora amore sarebbe stato un insulto verso chi, invece, amava davvero. Non potei più negare a me stessa che ciò che avevo fatto e a cui non avevo intenzione di rinunciare, avrebbe messo la parola fine sulla nostra storia, al nostro matrimonio, a tutto quello che eravamo stati insieme. Era colpa mia e non avevo dubbi a riguardo. Non avevo permesso a Mark di conoscere chi fossi veramente, non gli avevo concesso di scegliere: gli avevo semplicemente dato tutto quello che sapevo avrebbe voluto, ma lo avevo costretto a vivere in una menzogna alla quale credevo di potermi abituare. Lo avrei voluto. Avrei voluto che mi bastasse e invece erano stati sufficienti un dubbio, una tentazione, un uomo a cui mi ero sentita da subito profondamente e insensatamente legata, a farmi crollare. Non avrei potuto essere più egoista di così. Non avevo avuto nemmeno il coraggio di ammettere a me stessa chi fossi. Avevo chiuso tutto quello che avevo etichettato come “sbagliato” in un luogo oscuro di me e poi avevo deciso che non avrei mai portato alla luce, senza sapere, senza immaginare che prima o poi sarebbe saltato fuori. Non era sbagliato, era umano e perfettamente lecito avere determinati istinti. Al contrario, vivere in una menzogna e costringere un'altra persona a fare lo stesso lo era eccome. Pensai che la punizione perfetta per me sarebbe stata quella di vivere una doppia vita scandita dal sesso con Ethan e con la vergogna che avrei provato a guardare negli occhi Mark quando avrei finto di essere felice con lui. Pensai che quello sarebbe stato il mio inferno e che avrei dovuto bruciarci dentro, poi mi resi conto che c'erano fiamme ben più alte, ben più calde, che avrebbero dovuto lavarmi: confessare non mi avrebbe certo liberata dai miei peccati, ma avrei dato la possibilità a Mark di cancellarmi dalla sua vita, di rifarsene una, di trovare una donna che l'avrebbe amato sinceramente, che si sarebbe aperta con lui e lo avrebbe reso felice. Costringerlo ancora una volta a vivere una vita che avrebbe creduto perfetta - questa volta coscienziosamente - sarebbe stato anche più meschino di quello che gli avevo già fatto. Mark doveva avere la possibilità di detestarmi, di guardare in faccia la codarda con cui aveva a che fare e di non provare pena o pietà per lei. Mi sentii morire. Avrei voluto avvicinarmi di nuovo e baciarlo ancora, anche solo per ringraziarlo di tutti i giorni felici che avevamo condiviso insieme e dell'impegno che aveva impiegato perché la nostra vita rasentasse la perfezione illusoria che credevo di volere, ma mi imposi di non farlo perché avrebbe significato rubare qualcosa che non mi apparteneva più di diritto. Pensavo di amare Mark, ero convinta di amarlo davvero, che il mio sentimento fosse più forte di tutto il resto. Invece mi resi conto che amavo l'idea dell'amore, ma non ne conoscevo il vero significato. Avevo lasciato che quest'idea mi influenzasse, avevo deliberatamente deciso che quello sarebbe stato il mio destino e che opporsi ad esso sarebbe stato inutile. Avevo incontrato un ragazzo, avevo lasciato che mi corteggiasse e passo dopo passo eravamo diventati una coppia. Il matrimonio era diventato un passo obbligato perché era quello che facevano le coppie innamorate: facevano progetti, si sposavano, costruivano un futuro insieme. Ma niente mi era stato imposto, niente era successo senza che io non fossi d'accordo e avrei potuto dire di no a tante cose. Forse, avrei dovuto semplicemente avere quel briciolo di coraggio di chiedere, o forse anche di pretendere, di avere libero accesso a tutto ciò che mi piaceva. Solo quando avrei avuto una risposta, e solo allora, avrei potuto trarre le mie conclusioni. Non ero vittima di quella situazione, ero vittima di me stessa e la carnefice dell'uomo che credevo di amare. Soffocai in quelle consapevolezze perché, prima di lasciarmi andare e concedermi anima e corpo a Ethan, i miei erano soltanto domande e dubbi. Li avevi ignorati credendo che avrebbero potuto rimanere tali se mi fossi sforzata e avessi lottato contro me stessa, invece mi ci ero frantumata contro e loro avevano frantumato me, insieme al perfetto muro di vetro fatto di apparenze, di convenzioni sociali, di una normalità che mi andava stretta e che alla fine mi aveva stritolata.

Fleshly Connection - Connessione CarnaleDove le storie prendono vita. Scoprilo ora