Capitolo 4 - Le domande giuste.

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Quella giornata iniziò male e non avevo nessuna ragione di credere che sarebbe finita meglio. La mattina a lavoro volò via velocemente fino a che non fui quasi cacciata fuori a spintoni dalla mia responsabile visto l'irragionevole numero di ore in più che mi capitava di lavorare senza che fossi pagata. Per quanto Josie mi adorasse e per quanto le facesse comodo avere qualcuno che lavorasse il doppio per lo stesso stipendio, si sentiva mortificata di non potermi garantire la paga straordinaria. In realtà, nessuno la percepiva perché di fatto non esisteva la necessità di turni più lunghi di quelli già assegnati. I ritmi della casa di riposo erano lenti e decisamente ben collaudati. In precedenza mi era capitato di allungare il mio turno era solo per il piacere di farlo, mentre in quei giorni era diventata un'esigenza per non essere costretta a ritornare a casa e scontrarmi con la montagna di regali di nozze ancora da scartare che mi erano stati recapitati e con la consapevolezza che avrei dovuto vivere in un luogo pieno di ricordi, nonostante fosse stato svuotato dagli oggetti che me li riportavano alla mente.

«Vorrei solo poterti dare lo stipendio che meriti. Non è giusto che tu debba essere retribuita per il lavoro che fai.» Josie sorrise mestamente, sinceramente dispiaciuta nel constatare quel fatto. Portava le trecce quel giorno, così come quasi tutti i giorni da quando l'avevo conosciuta ai tempi del mio tirocinio formativo. Aveva trentacinque anni, ma lo spirito e l'energia, così come l'aspetto, di una donna di dieci anni di meno.

«Non rimango per guadagnare di più, Jo, lo sai. Mi piace stare qui.»

«Se non avessi mai visto che razza di schianto che è tuo marito, penserei che vuoi stare lontana da lui.» Non risposi e non riuscii a fingere nemmeno l'ombra di un sorriso. Josie mi guardò per qualche secondo e smise di sorridere a sua volta. «Stavo solo scherzando, perdonami, sono stata inopportuna. Non intendevo certo dire che...»

«Oh, no, no.» La interruppi, quella volta sforzandomi di simulare un sorriso convincente. «Sono solo sovrappensiero. Nessun problema.»

Non lo avevo ancora detto ai miei genitori, alle mie amiche, a nessuno a parte Eleanor, alla quale avevo accennato una minima parte di ciò che era successo, senza scendere in alcun tipo di dettaglio se non quello che il mio matrimonio era ovviamente finito. Lei non aveva fatto domande ed io non avevo detto niente che facesse trapelare alcun particolare che non fosse la presenza di un altro uomo nella mia vita. La realtà, era che prima di un altro uomo nella mia vita, c'era un'altra me con cui dovevo fare i conti.

Sulla strada di casa, mi chiesi per l'ennesima volta come fosse possibile che Mark non avesse già fatto terra bruciata intorno a me, come fosse possibile che nessuno sapesse ancora niente. Strinsi il cellulare nella mano, tentando di convincermi a comporre il numero di mia madre e mettere così al corrente i miei genitori della catastrofe che avevo saputo causare, ma alla fine lo abbandonai di nuovo nella borsa, sconfitta dalla paura per la loro reazione. Come avrei potuto giustificarmi con le persone che mi avevano cresciuta convinti di aver saputo buttare nel mondo una brava persona, onesta, ricca di valori ai quali credeva fermamente? Che motivo avrei mai potuto fornirgli che giustificasse la fine così repentina del mio matrimonio? Dire loro la verità mi sembrò l'opzione meno indicata, eppure non ne riuscii a trovarne nessun'altra che fosse quantomeno credibile. Li avrei delusi e si sarebbero accollati la colpa di non essere stati in grado di ricoprire il loro ruolo genitoriale, quando in realtà non era così. Come avrei fatto a guardare negli occhi mia madre e mio padre, che mi consideravano il loro orgoglio e dunque distruggere anche i loro sogni insieme alla loro realtà?

Salii le scale lentamente, chiedendomi ad ogni gradino se non fosse il caso di tornare indietro e girovagare senza meta per restare fuori da quell'appartamento, ma poi mi resi conto che – in ogni caso – la sera sarei dovuta tornare lì e che dunque non aveva alcun senso procrastinare. Girai la chiave nella toppa e mi fu subito chiaro che non sarei stata sola. Vidi Mark, piegato su una scatola di cartone piuttosto grande, intento a riempirla di ciò che gli apparteneva. Indossava un paio di pantaloncini di cotone e una delle sue t-shirt preferite, quelle dell'università. Lo notai subito perché si girò verso di me per guardarmi, giusto il tempo perché il verde dei suoi occhi mi riportasse indietro nel tempo e per accorgermi che sulla sua mascella c'era l'ombra della barba che cresceva, sebbene non l'avesse mai fatta crescere fino a quel momento.

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