Capitolo 13 - Alba.

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Pensai che sarei tornata a casa e avrei pianto tutte le mie lacrime fino al punto in cui mi sarei prosciugata. Pensai che non sarei riuscita ad alzarmi dal letto per giorni, settimane... invece mi ritrovai in piedi, con le braccia strette sullo stomaco a guardare il buio fuori dalla finestra, illuminato solo dalle luci di una città che in quel momento non mi sembrò che fredda, indifferente e noncurante. Più mi sforzai di sfogarmi, di lasciarmi andare ad un pianto senza fine, meno ci riuscii. Mi sentii bloccata nel profondo, con i sentimenti congelati in un attimo che speravo non sarebbe mai arrivato. Ethan mi aveva distrutta e non era stata nemmeno una questione di limiti, semplicemente, era stato se stesso fino in fondo o almeno così credetti. Traeva piacere dal dolore che infliggeva ed io non ero che la sua vittima consapevole e consenziente ma, quel gesto, quel tiro mancino che mi aveva giocato, fu per me una vera e propria coltellata alle spalle, dritta al cuore. Non sapevo come riuscire ad accettarlo senza odiarmi più di quanto già non facessi. Per Ethan non bastava che avessi rinunciato ad una vita insieme ad un uomo che mi amava, a Mark, per lui era essenziale che mi odiasse perché mi avrebbe fatto soffrire e mi avrebbe allontanata definitivamente da lui. Sarei rimasta passo dopo passo, giorno dopo giorno, così sola da sapere di poter trovare conforto solo in lui e alla fine mi sarei accontentata, ciò che mi sarebbe sembrato “sufficiente”, sarebbe diventato il mio “tutto”.

Mi chiesi quale fosse stato il punto di rottura che aveva spinto Daisy a preferire la morte ad una vita con Ethan. Anche in quel momento, in cui lo odiavo così profondamente da chiedermi come facessi ad amarlo con altrettanta intensità, non riuscivo a comprendere, nemmeno ad immaginare, cosa avesse potuto provare di così doloroso, così insopportabile da scegliere come unica via d'uscita quella del sonno eterno. Mi fu chiaro che, per quanto mi sforzassi di capire, mi mancassero troppi tasselli che avrebbero composto quell'enigma infinito che era quell'uomo, carnefice e vittima di se stesso molto più di quanto lo fossi io. Mi domandai se era proprio il suo amore la sua arma. Più forte era il suo amore, più pene doveva infliggere? Se fosse stato così, se fosse stata davvero quella l'equazione, allora forse ero appena sfuggita ad un destino che mi avrebbe portata a tante sofferenze, molte più di quelle che pensavo di poter sopportare o che avevo subito sino a quel momento. Qualche settimana prima gli avevo promesso che non l'avrei lasciato, invece, lo avevo fatto eccome. Ancora una volta, avevo girato le spalle ad un uomo che mi amava, ancora una volta in una maniera che non riuscivo ad accettare.

Avevo perso. Avevamo perso tutti. Miseramente. Ancora.

Passarono sette giorni e non piansi nemmeno una lacrima. Mi mossi come un automa, marciando come un soldato tra casa e lavoro. Ignorai le chiamate al cellulare, non accesi il televisore neanche una volta. Mi svegliavo, andavo al lavoro, non mi fermavo più del dovuto nemmeno per parlare con Eleanor e, precisamente all'orario in cui finiva il mio turno, mi fiondavo a casa per raggiungere il letto e sprofondare in sonni pieni di incubi senza senso e che mi lasciavano ogni volta con sempre più ansie irreali che si aggiungevano a quelle che ignoravo magistralmente, ma che erano vere al punto da diventare palpabili. Ballai al locale il sabato sera per tener fede al mio impegno e per quel denaro in più che mi consentiva di vivere la mia indipendenza. Ethan, come immaginavo, non si fece vivo, Gwen mi ignorò, George si lasciò sfuggire uno sguardo accusatorio al quale io non risposi se non con l'impassibilità. Tornai a casa alle quattro del mattino così stanca come non lo ero mai stata, al limite delle forze fisiche e mentali. Non mi preoccupai nemmeno di svestirmi dei miei abiti succinti o di togliermi gli stivali quando mi infilai nel letto e pregai Dio di concedermi una notte di riposo che non mi avrebbe fatta sentire peggio di quanto già non mi sentissi. Non mi ascoltò. Mi girai tra le lenzuola a lungo, fino a che la mia mano non si ferì con qualcosa sul cuscino intonso nel lato vuoto del letto. La pelle del mio dito indice si ferì con quello che mi sembrò un foglio di carta e, una volta accesa la luce, mi accorsi che era davvero quello che pensavo.

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