5. La vita che volevo

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Oggi ho il mio primo incontro con il nuovo psicologo. Come se ne avessi bisogno.
L'ultimo con cui ho avuto a che fare era una donna ed era più fuori di me; il che la rendeva raccomandabile solo ai miei genitori che facevano tutto quello che veniva loro detto dagli assistenti sociali. Così, quando questi li hanno consigliato le sedute dallo psicologo, non si sono nemmeno preoccupati di trovarne uno capace.
E mi hanno mollata a quello più vicino a casa. La cosa positiva era che almeno potevo tornare da sola e stare per un po' fuori casa senza che i miei dovessero preoccuparsi per me.
Matt fa girare la chiave nella serratura spalancando il cancello della mia cella. Con un cenno della testa mi invita a seguirlo.
Mi conduce all'ascensore ed entra insieme a me. Digita il numero 2 e poi mi rivolge un sorriso.
-Stai tranquilla, è un tipo in gamba e poi non ti terrà dentro per più di 10 minuti. Potrai presto tornare a non far nulla – mi rassicura.
Gli sorrido.
Le porte dell'ascensore si aprono e lui mi indica una porta gialla di fronte a noi.
Lo saluto con un cenno e mi avvicino alla porta sotto il suo sguardo vigile.
Busso svogliatamente.
-Avanti -
Alzo gli occhi al cielo prima di entrare.
Quella che mi trovo davanti sembra la cameretta di un bambino di 6 anni, con le pareti azzurre tappezzate di nuvolette e il parquet giallo. L'uomo seduto alla scrivania ha l'aspetto del Dottor House ed è troppo impegnato a leggere alcuni fogli per alzare lo sguardo su di me.
Dietro di lui c'è una grande finestra coperta dalle tende dei Pokemon e la parete di fianco alla finestra è ricoperta di fogli con su disegni e scarabocchi.
Avrei dovuto portarli un paio dei miei, avrei avuto l'onore di essere sulla parete dello studio di uno strizzacervelli.
Mi siedo sulla piccola sedia verde davanti alla scrivania continuando a guardarmi intorno.
Solo adesso ho notato il lampadario a forma di caramella e l'abat jour sulla scrivania a forma di chupa chups.
Questo è veramente malato.
Poi all'improvviso vedo un piattino sotto l'abat jour con dentro delle caramelle alla mela.
Questo tizio è in assoluto la mia persona preferita al mondo.
Mi mordo un labbro cercando di trattenermi ma non ce la faccio, non reggo più l'astinenza.
-Posso? – chiedo con gli occhietti dolci e le dita che già stringono una caramella.
Lo psicologo solleva finalmente la testa dai fogli. Mi guarda divertito e annuisce.
Scarto velocemente la caramella e la infilo in bocca.
Potrei morire qui adesso e morirei felice.
Non passa molto prima che passi anche alla seconda e poi alla terza, alla quarta e alla quinta, fino a quando il tipo non mi interrompe schiarendosi la gola.
-Allora, io sono il dottor Bane, ma puoi chiamarmi Jack – mi mostra il cartellino che porta a destra della camicia con su scritto "Jackson Bane"
Io e te siamo destinati a grandi cose Jack.
Jack mi sorride aspettando che io dica qualcosa ma non lo faccio.
-E tu ti chiami...? – mi chiede incitandomi a continuare.
-Cateline Russell. Puoi chiamarmi Cate –
-Bel nome – commenta.
Annuisco in imbarazzo.
–Allora qui ci sono scritte alcune domande, 5 in tutto, per conoscerci meglio. Risponderò prima io e poi lo farai tu, ti va? – dal suo tono sembra più un invito a bere dal beeberon senza fare storie che altro.
-Okay – rispondo poco convinta.
-Allora, la prima è: ti piace il tuo nome? Come avresti voluto chiamarti? A me il mio nome piace e non avrei voluto chiamarmi in nessun altro modo. Tu? –
-Mi sarebbe piaciuto chiamarmi Lauren – mi limito a dire.
Lui annuisce prima di passare alla seconda domanda.
Forse non è così male come psicologo: insomma, a me basta che si faccia gli affari suoi.
-Quanti anni hai e quanti pensi di averne? –
Cosa stra cazzo significa?
-Io ho 47 anni, ma penso di averne 12 perché non ho mai visto l'infanzia come un periodo della vita, ma come un modo di pensare e di comportarsi. E quindi mi sento ancora un bambino –
Okay. Dove la trovo una risposta altrettanto poetica?
–Io ho quasi 17 anni ma mi sembra di averne 40 a volte perché mi vedo molto più matura delle mie coetanee – dico senza pensarci troppo su.
-E come mai? – ecco lo strizzacervelli che è in lui.
-Per il modo di pensare, per il fatto che noti tante cose a cui i ragazzi della mia età non fanno caso, perché faccio sempre finta di fregarmene di tutto ma in realtà do peso alle cose e alle parole. Poi perché ci sono momenti in cui mi fermo a riflettere e mi sembra di aver già vissuto abbastanza, ma in realtà ho ancora tutta una vita davanti e boh, a volte non sembra bastarmi –
Cosa c'era in quelle caramelle?
Sospiro sperando che questo Jack non voglia approfondire l'argomento.
-Domanda numero 3 - inizia - Colore preferito? –
Questa è troppo semplice, nasconde qualcosa sotto. Per forza.
-Il mio è il giallo – mi informa.
-Nero –
Troppo scontato?
- Simbolo di potere, eleganza, magia, mistero. Ma anche di morte, cattiveria, infelicità, rimorso, rabbia – mi spiega. Deglutisco - Cate tu ha dei mostri nell'armadio che hai paura di far uscire. Non devi lasciarli chiusi lì dentro, devi riuscire a domarli –
Voglio andare via. Questo tipo non mi piace.
-Numero 4 – scandisce lentamente. Inizia a farmi paura - Se potessi reincarnarti in un animale, quale sceglieresti? Io l'elefante. Sono fondamentalista –
Altro tranello. Cosa scoprirà adesso sul mio conto Mr elefantino giallo strizzacervelli?
-Leone – rispondo ansiosa di sapere cosa significhi.
-Vuoi crearti una nuova personalità, è come se avessi dimenticato chi sei realmente a forza di sentirti dire chi dovresti essere, ma hai paura, pensi di non avere abbastanza audacia e sicurezza per importi. Vuoi liberarti del peso di un autorità che ti schiaccia. Temi la lotta aperta ma muori dalla voglia di vincere –
Okay devo andare via da qui.
Sposto un po' indietro la sedia ma Jack mi ferma.
-Manca solo una domanda Cate, vuoi andare già via? –
-Io non penso di poter rispondere - deglutisco.
-Io sono qui solo per aiutarti a stare meglio e per schiarirti le idee. Tutto ciò che ci diciamo qui dentro non esce da queste mura. Voglio solo ascoltarti, non devi temermi -
Mi mordo un labbro e annuisco in segno di resa.
-Ultima domanda: sei felice della tua vita? –
-No – rispondo senza attendere la sua risposta.
-Cosa avresti voluto di diverso? –
Taccio per qualche secondo.
-

Tutto. A partire da me. Avrei voluto avere la capacità di affrontare le cose in modo diverso, la prontezza di affrontarle nel modo giusto. Avrei voluto piacere, sarei voluta essere la classica ragazza brava in tutto e con cui a tutti fa piacere passare del tempo. Avrei voluto avere degli amici. Ma non sono mai stata un granché a parlare, né gli altri a capirmi. Mi sarebbe piaciuto confrontarmi con persone della mia età e cercare con loro le risposte alle domande che mi tengono sveglia la notte da ormai troppi anni. Avrei voluto una famiglia diversa, avrei voluto sentirmi amata, protetta. Mi sarebbe piaciuto uscire da scuola con il desiderio di tornare a casa per pranzare con i miei genitori e raccontare loro della mia giornata, non quello di scappare ogni volta che mi trovavo davanti alla porta di casa. Avrei voluto avere dei genitori più comprensivi, più buoni. E mi rimprovero perché nonostante non lo siano mai stati ci tengo troppo a loro e sento la loro mancanza fin dentro le ossa. Perché sì, erano imperfetti, hanno fatto tanti errori e me li hanno fatti pesare tremendamente, non mi hanno mai messa al primo posto e con me non ne hanno azzeccata una, ma erano gli unici genitori che avevo. Avrei voluto avere dei nonni, o degli zii. Invece i genitori di mio padre sono morti prima che io nascessi, mentre mia madre una volta uscita di casa non ha più rivolto la parola ai suoi. Mio padre aveva un fratello. Ma lui e sua moglie sono morti in un incidente stradale quando avevo un anno, ed è come se non li avessi mai conosciuti. Chissà, magari loro avrebbero saputo amarmi? Chissà, magari i nonni lo avrebbero fatto, magari sono ancora disposti a farlo, ma non ho idea di dove siano adesso. Poi avrei voluto andare bene a scuola, avrei voluto avere le idee chiare sul mio futuro e su cosa volessi fare. Mi sarebbe piaciuto anche fare sport e non convivere con le capacità motorie di un bradipo. Avrei voluto rendere fieri i miei. E invece non ho fatto in tempo. Avrei voluto che i miei non morissero. Avrei voluto avere una sorella ad affrontare la situazione con me. Mi sarebbe bastata anche solo una persona lì vicina a me a dirmi "Ce la farai, non piangere. Io sono qui ." E invece ero sola, ho affrontato tutto da sola, e non parlo solo della morte dei miei. Ecco, forse mi sarebbe bastata una persona. Forse l'avere qualcuno al mio fianco mi avrebbe fatto credere che la vita alla fine non fosse poi così male. Forse a questa domanda avrei risposto "sì", se anche solo una volta qualcuno mi avesse asciugato le lacrime e non si sarebbe limitato a farmene una colpa –
Ho gli occhi bagnati e non riesco a vedere l'espressione dello psicologo ma non dice nulla e penso che forse questa mia risposta gli ha fatto dimenticare tutte le domande che avrebbe dovuto farmi.
-Puoi andare – si limita a mormorarmi.
Annuisco e con gli occhi ancora gonfi di lacrime esco dallo studio correndo.

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