-04-

44 3 2
                                    

Il campo da basket è una delle cose più belle che ci sono in questa università. È curato, pulito e soprattutto moderno. Purtroppo, però, è occupato. La squadra maschile si sta allenando e invece di andare via, rimango ad osservarli giocare. L'allenatore si accorge della mia presenza, ma non mi da peso, è troppo concentrato a guidare i suoi giocatori.

Una cosa che amo fare, quando guardo una partita di basket, è cercare di capire lo schema di gioco e i vari ruoli. Non sempre ci riesco, ma alcune volte è così facile che mi stupisco di me stessa.

In questo caso riconosco subito uno dei due Playmaker in campo. Stanno facendo un cinque contro cinque. Trovo il Centro della squadra con la pettorina bianca e una delle Ali della squadra con la pettorina blu. Non è facile collegare i ruoli al tipo di gioco, nel basket, la maggior parte delle volte, tutti coprono il ruolo di tutti.

«Coach, ma è permesso avere spettatori?» dice uno dei ragazzi in campo, all'improvviso, alzando lo sguardo verso di me. L'allenatore ha chiamato il time out e ora stanno facendo una pausa. Molti si sono girati verso di me, ma non mi sento nemmeno un po' in imbarazzo, questo è il mio ambiente.

Mi sposto dalla tribuna e scendo alle panchine, il coach mi guarda curioso. Si sta chiedendo il motivo della mia visita e io sono pronta a darglielo. Quello che sto per proporre è rischioso, ma voglio almeno tentare.

«Buongiorno» saluto, avvicinandomi alla squadra, ora tutta riunita intorno a me. Ricevo alcuni sguardi curiosi, il ragazzo di prima non ha ancora smesso di studiarmi. È molto alto, moro, bello. Vorrei che si girasse per leggere il nome sulla divisa. Mi accorgo di essere stata in silenzio per un po', cosi mi rivolgo al coach. «Lo so che questa richiesta può sembrare un po' azzardata, ma vorrei potermi allenare con voi. Non pretendo di giocare nelle partite, vorrei solo non smettere di farlo del tutto».

L'allenatore mi guarda stranito, non deve capitargli spesso. «Sai giocare?» mi chiede, non sembra del tutto contrario, questo mi da speranza. Annuisco, certo che so giocare.

«Sono anni che gioco» rispondo, scrollando le spalle. Vorrei farmi vedere disperata, ma con la disperazione non si arriva da nessuna parte. «Posso dimostrarle che sono capace, prima che mi dia una risposta».

Lo propongo sperando che accetti, non vedo l'ora di potermi ributtare in campo.

Il ragazzo con gli occhi neri di prima fa un passo avanti, mi sta fronteggiando. È alto almeno trenta centimetri più di me, ma non mi fa paura.

«Gioca con me, uno contro uno» dice, spavaldo. «Coach?»

Quest'ultimo annuisce, prendendo posto sulla panchina insieme agli altri giocatori, che ridacchiano, come se stessero per assistere ad uno spettacolo di cabaret. Quella situazione mi fa arrabbiare e quando sono arrabbiata, gioco meglio.

«Voglio vedere come tieni la palla, il tuo modo di tirare e la difesa. Non pretendo che salti a canestro per schiacciare, è impostato sulla media maschile. Ora giocate, questa non me la voglio proprio perdere».

Il confronto è difficile, sono la prima a mettere da parte l'arroganza e ammettere che vincere contro un ragazzo così allenato e fisicamente portato è praticamente impossibile. Il mio obbiettivo però non è vincere, è dimostrare di poter tenere testa ad un giocatore abilmente più forte di me, ed è esattamente quello che faccio. Riesco a difendere la palla la maggior parte delle volte, sono abbastanza veloce da riuscire a rubargliela per una o due volte e i tiri da tre sono sempre stati il mio punto forte. Un po' come una versione minuta e più scarsa di Stephen Curry. Andiamo avanti per dieci minuti, poi il coach suona il fischietto e ci richiama. Una delle cose più appaganti è vedere che gli altri giocatori non ridacchiano più.

«Dove hai imparato a maneggiare la palla così?» mi chiede, curioso. «Per quanto mi riguarda sei libera di venirti ad allenare con noi quando vuoi. Non è un obbligo, quindi se salti un allenamento non importa, ma a piace quando chi si prende un impegno, lo rispetta».

Scrollo le spalle. «Kyrie Irving è mio cugino» lo dico con talmente tanta nonchalance che vedo qualche occhio sbarrarsi. «Scherzo, ovviamente. Anche se l'ho incontrato una volta, ad una partita dei Celtics. E comunque coach, non ho mai detto di voler saltare un allenamento. Mi dica quando e dove e ci sarò».

L'uomo prende un foglio nella sua borsa e me lo passa. Poi va via, sbuffando e alzando gli occhi al cielo. Sono sicura di avergli sentito dire "Ah, i giovani di oggi" ma molto probabilmente è stata la mia immaginazione.

Faccio per uscire anche io - non ho giocato molto oggi, ma ho ottenuto quello che volevo - quando il famoso capitano mi richiama.

«Aspetta» esclama, non ho ancora visto il suo nome sulla pettorina. «Come ti chiami? Perché non ti ho mai vista da queste parti?».

Lo guardo, mi sta camminando accanto, da vicino è ancora più bello. Ha dei tratti che sembrano asiatici, ma sono sicura che non sia asiatico. O forse lo è, non sono mai stata forte a distinguere le varie etnie. Se vedo un indiano, d'accordo. Loro sono inconfondibili, ma per il resto, niente da fare.

«Magnolia» rispondo. «Sono arrivata oggi, matricola 858327 qui presente. E tu? Come ti chiami, Capitano?».

Mi porge la mano, vuole stringermela a mo' di saluto. «Calum Hood» dice, facendo un po' di pressione sulla mia mano, quando la incrocio con la sua. «Terzo anno».

«Scusa la domanda un po' ambigua,» asserisco, notando che la differenza di altezza tra noi sembra più evidente quando siamo vicini «ma quanto sei alto?»

Calum scoppia a ridere e si accorge – forse per la prima volta – che sono davvero bassa per giocare a basket. Non arrivo nemmeno al metro e sessantacinque.

«Uno e novantacinque» esclama, fiero. «Ma fai che ti abbia detto due metri». 

flowerish; 5sosDove le storie prendono vita. Scoprilo ora