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Aline e Tammy sono diventate amiche. Non ho mai avuto dubbi a riguardo, si sono trovate come si trovano due anime gemelle in pena nel momento del bisogno. Il loro momento del bisogno è avere in comune un'amica che non pensa mai ai ragazzi. Sono sempre più stupita di come se non pensi ai ragazzi in continuazione, diventi automaticamente quella strana.

«Come è andata ieri?» mi chiede, proprio Tammy, mentre si piastra i capelli. Piastrarsi i capelli a fine agosto è un trauma, il collo suda, tutta la faccia suda e a fine lavoro, i capelli sono peggio di prima. Ovviamente questa regola universale non vale per Tammy, che non si sa come ha dei capelli che Newton studierebbe con attenzione. Sono invidiosa e glielo dico sempre, circa sei volte al giorno. «Hai incontrato dei ragazzi carini, nella squadra di basket?».

Alzo gli occhi al cielo, figurarsi se potevamo non parlare di ragazzi per cinque minuti. Aline drizza le orecchie, curiosa. In effetti si, un bel ragazzo c'era. Glielo dirò? Non lo so, dipende quanto mi sento crudele questa mattina.

«Benissimo! Il coach mi ha detto che se continuo così diventerò anche migliore di qualcuno di loro!» dico, presa dall'entusiasmo. Vedo le due ragazze davanti a me alzare gli occhi al cielo. Non c'è niente meno emozionante di qualcuno che smorza la mia emozione. Sbuffo, lo so quello che vogliono sentirsi dire. «E si, c'erano dei bei ragazzi».

«Allora ti verremo a vedere sicuramente agli allenamenti!» esclama Tammy.

«Ho sempre amato il basket!» continua Aline. «O meglio, i giocatori» aggiunge e ridacchia in modo molto ambiguo.

Mi sembra di essere finita dentro ad un film comico, per la superficialità presente in questa stanza. Tammy è mia amica da una vita e ho imparato a conviverci, ma adesso devo convivere con ben due Tammy. Ce la farò? Lo scopriremo molto presto, nel sequel. Se lo faranno. Ne dubito. La trama di questo film fa proprio schifo.

«Non potete, gli allenamenti sono chiusi al pubblico» dico, anche se non è vero. Non mi va di vederle sempre lì a distrarre la squadra. Il basket è una mia cosa. Voglio che rimanga tale, per quanto egoistica possa sembrare come cosa.

Oh, Maggie, povera ragazza insensibile che proibisce alle sue due amiche di rimorchiare tutta la squadra mentre tu cerchi di schiacciare in un canestro maschile.

«Ciao, Ashton» mi butto sul bancone della caffetteria, esausta, mentre ordino un caffè dal mio barista preferito. Sono appena tornata dagli allenamenti, sudata e stanchissima. Lui non mi giudica, non gli frega niente se sono impresentabile, è per questo che siamo diventati amici.

«Magnolia Keller» mi dice, porgendomi il bicchiere con il caffè dentro. «Come sono andati gli allenamenti, oggi? Calum Hood ti ha già toccato il sedere?».

Devo sforzarmi per non sputare il caffè che ho in bocca, mentre cerco di non ridere. Ashton ogni tanto se ne esce con queste domande.

«Ancora no» rispondo, sorseggiando la bevanda calda. «Ma detto tra noi: spero che lo faccia presto».

Questa volta è il turno di Ashton di ridere, lui non si trattiene, non ha niente in bocca. Poi però la smette, perché sta arrivando qualcuno che a quanto pare lo mette in soggezione.

Io, ingenua ragazza di Aberdeen, Nord Carolina, pensavo che le gang band di ragazzi fighetti esistessero solo al liceo. Invece mi sbagliavo di grosso, perché la scena che mi si para davanti è l'emblema della banalità. Se si potesse fare una foto alla banalità, questa rappresenterebbe loro.

«E quelli chi sono?» chiedo al mio amico, che alza gli occhi al cielo almeno cinque volte per qualsiasi cosa facciano. «Mi sembrano grandissimi palloni gonfiati».

Nemmeno a dirlo, quello che presumo sia il capo, classico fighetto scolaro con il padre pieno di soldi, vestito in camicia elegante e maglioncino di cashmere giusto per sottolineare la sua posizione, viene nella nostra direzione.

«Buongiorno» dice e, più scontato di così si muore, il suo accento proveniente dall'alta società inglese invade i nostri timpani. Normalmente sarei emozionata di trovare qualcuno che abbia un genuino accento britannico – il mio preferito – ma questo tizio mi da i nervi e ha solo salutato. Sarà la camminata finta a rallentatore.

«Luke» saluta il barista, con un cenno della testa. «Il solito?»

Il ragazzo in camicia annuisce, e si guarda intorno, mentre aspetta. Quando mi vede, storce il naso. Eppure, sono stata qui per tutto il tempo.

«Tu sei quella che si è fatta ammettere nella squadra di basket maschile?» mi chiede, notando che guarda la divisa che ancora non ho tolto.

Faccio finta di guardarmi la divisa e poi la indico. «Oh, questa dici?» dico, scuotendo la testa. «No, è che sono veramente fan della squadra e l'altro giorno mi è capitato di poter entrare di nascosto negli spogliatoi. Ho rubato la divisa sudata del capitano, Calum Hood, lo conosci? Non me la tolgo da quel momento, ne vado molto fiera». Luke mi guarda schifato, Ashton ride. Ride così forte da far saltare la mia storia.

Il biondo alza gli occhi al cielo, «Presumo sia tu».

«Perspicace, davvero» rispondo. Al mio occhiolino, se ne va definitivamente.

Ashton non ha ancora smesso di ridere, la cosa sta diventando un po' imbarazzante perché, ridendo, gli va di traverso la saliva e sembra un piccolo maiale. Mi guarda con ammirazione, poi finalmente la finisce di grugnire.

«Lui è il mio compagno di stanza, per questo lo conosco. Penseresti che quelli come lui possano pagare per scegliersi il compagno di stanza, ma l'università glielo ha negato. Non è così male, quando sta zitto. Dovrebbe stare zitto più spesso» ammette, il barista, guardando nella direzione in cui è andato Luke.

«Quanto spazio ti ha lasciato nell'armadio?» gli chiedo, sapendo però già quale sarà la sua risposta.

«Poco» risponde, sbuffando. «Pochissimo».

«Immaginavo».

flowerish; 5sosDove le storie prendono vita. Scoprilo ora