7 IL MAESTRO

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«Dovresti mangiare» le disse Ladon guardando anche lui disgustato il liquido che, dentro la ciotola, si muoveva da solo. «Ti ho portato pane e un pezzo di formaggio» affermò porgendo alla ragazza un fazzoletto bianco, che avvolgeva i viveri.

Dazira ingurgitò tutto senza preoccuparsi delle buone maniere, lasciando Ladon senza parole: il suo atteggiamento era più selvaggio che umano.

Erano tre giorni che non mangiava: quella zuppa era diventata quasi allettante, nonostante i vermi che ci sguazzavano dentro. Ma aveva resistito, sapeva che Ladon si sarebbe ricordato di portarle qualcosa, alla fine.

Le spiegò che, al momento, erano in corso delle indagini anche nei suoi confronti per comprendere quanto lui centrasse nella storia, ma erano quasi tutti consapevoli che Ladon non avrebbe mai appoggiato l'idea così balorda di aiutare un assassino.

Quanto ad Ernik, né Ladon, né Dazira lo avevano visto in quei giorni.

«Devi comprenderlo» aveva affermato il bibliotecario. Ma Dazira non riusciva ad accettare che le avesse voltato le spalle pur sapendo che, forse, avrebbe reagito alla medesima maniera.

«Tornerà sui suoi passi» l'aveva incoraggiata l'uomo che, di fronte a lei, appariva più vecchio di quanto non fosse, sicuramente anche in seguito agli avvenimenti degli ultimi tempi.

Eppure, Dazira non era d'accordo: non credeva possibile che Ernik tornasse indietro ad abbracciarla, a dirle che, qualunque cosa sarebbe accaduta, lui sarebbe rimasto al suo fianco.

Era ancora ben stampata nella mente della ragazza l'immagine del disgusto di Ernik, quell'unica volta in cui s'era degnato di andare a trovarla. Dazira era sola, fatta eccezione per Ladon.

Le uniche persone che era riuscita a vedere, eccetto Ladon, erano quell'unto, lardoso guardiano che le portava il cibo, il suo carceriere dall'aria inquietante che, a quanto pareva, stava studiando i suoi omicidi, e le sue vittime, appunto.

La ragazza non aveva mai lasciato la cella: aveva passato le sue giornate rinchiusa con le persone che avrebbe dovuto uccidere.

Memore della prima esperienza, si era guardata bene di non scambiarci nemmeno una parola.

Alcuni erano tremendamente spaventati, altri non ci credevano e si adagiavano sulla pietra in attesa che qualcuno venisse a recuperarli per portarli al patibolo o per essere liberati; altri ancora erano aggressivi e cercavano di ammazzare lei prima che li uccidesse. Motivo per cui tutti venivano legati con cinghie di cuoio e, i più robusti, con le catene.

Andò avanti così per quasi due settimane e Dazira arrivò a sentirsi più una bestia che un essere umano. Un vero macellaio di carne umana, al punto che perse sensibilità e smise completamente di piangere.

Ma, con il passare dei giorni, persino Ladon aveva iniziato a vederla per quello che stava diventando, ragion per cui iniziò a presentarsi sempre più di rado alla piccola cella macchiata costantemente di rosso.

Era doloroso per il bibliotecario vedere quella ragazzina che amava come una figlia farsi sempre più magra, sciupata, consumata dalla sua maledizione. Vedere quegli occhi cerchiati e la pelle spenta, il corpo debole. Osservare la costanza con cui i corpi inerti uscivano della sua cella.

Una mattina, a svegliarla, fu un improvviso freddo glaciale che le impregnò i vestiti.

Quando si alzò a sedere, Therar, il suo carceriere, era in piedi di fronte a lei, con la porta spalancata della cella alle sue spalle. In mano teneva un secchio dalle giunture metalliche coperte dalla ruggine.

LA QUINTA LAMA (I) - L'assassinoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora