Questo brano è stato ispirato dal quadro di Carlo Levi, "il trionfo della Castità".
Eravamo io, lo specchio, il mio corpo e il silenzio.
Era quel tipo di silenzio per cui più tendi le orecchie, più non senti nulla.
Era tarda notte. Mi osservai nella penombra della stanza, illuminata soltanto da due candele poste ai lati dello specchio. Il mio sguardo scorse su tutto il corpo nudo, puro, semplice, il mio corpo da donna. Con le mani percorsi i contorni del mio seno, quasi con timore, sfiorai i capezzoli, che si indurirono al contatto con le dita fredde.
Passai con leggerezza dal ventre, mi accarezzai l'ombelico e scesi più giù, fino al mio essere donna. Ciò su cui avevo giurato quella mattina e che aveva determinato il resto della mia vita.
Più la mia mano scendeva, più quella piacevole pulsione aumentava. Mi accarezzai, mi toccai, sorrisi, ero bella, ero donna. Improvvisamente mi resi conto che non avrei più mostrato tutto questo a nessun'altro che me stessa, mai, per il resto della mia vita.
Queste erano le conseguenze del voto di castità.
Queste erano le consequenze dell'essere la figlia di un nobile. La mia frustrazione o forse, desiderio di ribellione, mi spinse ad aprire le gambe, a scoprirmi. Scoprii che potevo plasmare quella pulsione a mio piacimento, intensificandola o diminuendola, a seconda dei punti che andavo a toccare.
Sorrisi, ma una lacrima mi scese sul viso. Il mio corpo mi stava parlando, il mio corpo non voleva tutto questo. Io non volevo tutto questo.
Volevo vivere, volevo amare. Amare alla follia, amare come una ragazza desidera di vivere i suoi anni migliori. Ma io mi ero buttata via, la mia vita era segnata. La cosa peggiore è che me ne ero resa conto solo in quel momento, davanti a quello specchio. Da sola con la mia intimità, dove non c'erano dogmi che mi deviassero sull'idea che l'unica vita dignitosa per una donna del mio rango, era la clausura.
Li, dove a comandare era solo il cuore.
